Il punto. Caro Morra, la mafia non si vince combattendo la fede

Appunto perché il cancro delle mafie è serio, anche le rampogne lo devono essere altrettanto. Quella di Nicola Morra, presidente a cinque stelle della commissione parlamentare Antimafia, all’indirizzo di Matteo Salvini, getta sabbia negli occhi. L’accusa di aver ostentato il rosario a Isola Capo Rizzuto, “ignorando che la ‘ndrangheta ha il suo santuario nella Madonna di Polsi in Aspromonte” è tanto inquietante quanto banalizzante. E quindi pericolosa. Perché – francamente – non solo non regge, ma confonde e trascina in basso la difficile questione del nesso tra segmenti minoritari della devozione popolare e il prestigio criminale che le organizzazioni tentano di informare nei contesti soprattutto meridionali del Paese. 

La vicenda è gravida di complessità, insomma. Rispetto alla quale le Chiese sia siciliane che calabresi da anni stanno agendo con forza nel tentativo di non gettare il bambino con l’acqua sporca. Una battaglia durissima, spesso silenziosa, e non priva di rischi concreti. Perché non è esattamente cristiano il metodo della ghigliottina, che mette nello stesso cesto la buona fede dei credenti e le cattive intenzioni dei malacarne, decapitandole entrambe. Semmai illuminista, filosofia che nella sua proiezione giacobina vorrebbe l’azzeramento di ogni pietà religiosa in vista di una certa laicità che rischia di essere soltanto il preludio dell’ateismo più liberticida.

Gli anni della difficile transizione post unitaria sono stati segnati da queste spinte. Una testimonianza assai efficace arriva dalle pagine – per citarne alcune – del Viceré di Federico De Roberto. A quanto sembra, Nicola Morra, nella leggerezza dei suoi passaggi logici, rivela una cultura di fondo che rischia di non tornare utile a comprendere le declinazioni del sentire popolare. E neanche alla lotta antimafia. Che – come hanno insegnato giudici Falcone e Borsellino – va costruita sulla scorta di fatti ed elementi verificati e non su congetture abborracciate e da esporre dinnanzi a mille obiezioni. Perché è sulla confusione che le mafie costruiscono il loro consenso ed esercitano con violenza la loro sovranità sui territori. 

Di tassello in tassello va aggiunto anche un altro dettaglio che fa saltare l’altrettanto tentativo posticcio di auto-limitare l’uscita anti-Salvini: la scusante cioè della non conoscenza della simbolica del contesto calabrese. Un elemento che non regge. Perché un presunto segnale presuppone l’esistenza di un linguaggio che deve essere ben conosciuto da entrambi gli interlocutori per essere leggibile e quindi efficace. Dettaglio che sia l’ultimo giornalista di giudiziaria che il meno attrezzato degli investigatori conoscono perfettamente. Tradotto? Se Salvini non sapeva ciò che faceva, il suo gesto va confinato nel suo esclusivo ambito di pertinenza: la comunicazione politica. Che poi la sua scelta “madonnara” si possa prestare a critiche, ragionamenti o riprovazione, quella è un’altra faccenda: legittima e allo stesso tempo gravida di interpretazioni. Ma da affrontare a carte scoperte. 

@fernandomadonia

@barbadilloit

Fernando M. Adonia

Fernando M. Adonia su Barbadillo.it

Exit mobile version