Il caso. Oltre ai videogiochi. Perché non fare del tressette uno sport olimpico?

Sia chiaro fin dall’inizio, questo è un gioco, nemmeno una provocazione. Un’invocazione alla leggerezza e alla clemenza.

Basta tergiversare: vogliono fare dei videogiochi discipline olimpiche. Sembra che il dibattito sia già incardinato e che la proposta abbia trovato molti sostenitori. Intanto il Cio ha riconosciuto gli eSports come, appunto, sport. Dicono che si tratti di discipline davvero competitive, agonistiche vere e proprie.

Sia chiaro dal principio: chi scrive non ha nulla contro i giochi elettronici. Anzi, mi sono nutrito a Pc Calcio, a Mortal Kombat; ho speso milioni spicciolati in monete da duecento lire a Pang, ai giochi di pallone e wrestling virtuale, a Double Dragon. Ero abituato alla competizione paesanissima delle gare tra ragazzi al bar. Il brillio tremulo delle tre lettere pulsanti a fine partita che consentivano di firmarsi il record. E c’era chi s’ingegnava a firme e sigle e chi, prosaico e beffardo, compitava lettere nemmeno troppo a caso: c-a-z.

Però non ho mai avuto nemmeno la tentazione di considerare, quale atleta, un pur ottimo giocatore di Street Fighter. Forse perché il più bravo di tutti era un ragazzino ciccione e un po’ bullo il cui unico sforzo atletico era quello di compulsare tasti e di spazzare via dalla fila per il turno di gioco, a panzate, noialtri fisicamente più piccoli. Sarà un limite e un trauma mio, sicuro.

Crescendo, anche al bar diventava naturale relinquere nuces. Come dalla coca-cola si passava alle birre sgargarozzate di nascosto, così – già alla primissima puberalità – si abbandonavano le pulsantiere e si imbracciavano le carte. Un universo che iniziava a schiudersi, di solito, con la facillima scopa e finiva – per tutti o quasi – al laborioso e complesso tressette.

Arte vera, diffusa e praticata in ogni angolo dello Stivale. In cui il ciccione di cui sopra, mentalmente poco dotato, si svelò scarsissimo. Intanto leggende, addirittura, sorgevano attorno ai più bravi cartolatori. Si raccontava di  combinazioni impossibili, di guizzi di imbattibile strategia (ché al tressette la sola fortuna non basta), epifanie di genialità premiata a Vermouth o infortuni di cretinaggine pagati (almeno) un Cynar.

Attorno ai duellanti, c’era sempre una piccola folla di spettatori e di osservatori. Talora addirittura commentatori che si scambiavano consigli, opinioni, giurisprudenze di gioco e mosse del cavallo applicate al Re di Coppe. Se non è agonismo questo…

I tornei di tressette, ogni estate, erano (e qualche oasi ancora resiste) un appuntamento imperdibile alle mescite, alle cantine, ai bar. Come i lunghi pomeriggi d’estate passati a nascondersi, a contarsi, a farsi tana. E qualcuno, con la scusa del rimpiattino, ad amoreggiare di nascosto tra le fresche frasche, in qualche dirupo, sotto i garage. Non era una competizione, quella del nascondino. Ma schermaglia di iniziazione all’amore. Questa è, però, un’altra storia.

Nella quiete agostana, il breve sollievo dall’afa induce a ritenere che se è giusto considerare l’agonismo quale requisito acché un gioco possa trasformarsi in sport, dunque, il tressette potrebbe entrare facilmente nel gotha olimpico magari già il prossimo anno a Tokyo. Certo, forse mancherà la diffusione nei cinque continenti e probabilmente in Australia non si sa cosa sia un “piombo”, in Cina giocarsela “col morto” potrebbe apparire più macabro che divertente e negli Stati Uniti “Napoli” è parola che significa pizza e nulla ha a che spartire con le carte. Che a quelle latitudini, del resto, sono sempre e comunque francesi.

Sicuro, al tressette mancano sponsor economicamente forti che organizzino eventi su scala mondiale, che costruiscano personaggi coperti di cappuccio e mascherati con gli occhialoni da sole. Non c’è l’all-in al tressette.

@barbadilloit

Giovanni Vasso

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