Cultura (di P. Isotta). Addio a Francesco Durante, uomo di cultura andato via troppo presto

L’anacaprese è uno fra gli orribili dialetti del Golfo di Napoli. Differisce moltissimo dal pur orrido caprese: le due comunità sono distanti poche centinaia di metri. Assomiglia al puteolano, a quello di Torre Annunziata. E ho detto tutto. Un anacaprese dal timbro flautato, delicato, suadente, eppure c’era: e parlava con il più dolce degli accenti veneti, quello padovano. Francesco Durante aveva frequentato l’università nella città di Antenore. Uno dei motivi pei quali l’invidio è che aveva potuto seguire i corsi di Filippo Maria Pontani, uno dei miei miti fra i grecisti, sebbene il suo omonimo discendente non se ne sia mai accorto. L’altro motivo, e ben più alto, d’invidia che provo per Francesco è ch’e se n’è andato senza nemmeno accorgersene, mentre passeggiava al mattino di sabato sulla Piazzetta di Anacapri, ai piedi della splendida seggiovia. E chi non darebbe anni di vita per finire così? Certo, quando se ne va un tuo amico (e confidente) da quarant’anni, se ne va anche una parte di te: e siamo ogni giorno più poveri, fino all’egestà definitiva, che dalla vita ci butta nel nulla.

Durante era un giornalista; ciononostante, un uomo di cultura. Amava il leggere. Il quotidiano al quale da ultimo era tornato (e nel quale era il mio unico amico), “Il Mattino” che della retorica “istituzionale” è l’incarnazione, nel titolo che dava la triste notizia lo definisce “Un principe della cultura”. Conosco certi principi d’autentico blasone ai quali non metterei un centesimo in mano. Ma “principe della cultura”? Croce, Borges, Galasso, Gaetano De Sanctis …. Questi nomi mi vengono in mente. Perché mortificare il povero Francesco, che, tornasse a vivere, farebbe causa al giornale?

Francesco era molto colto. Non lo faceva pesare. Soprattutto a me, che ignoro tutto o quasi della letteratura nordamericana della quale è stato uno dei più importanti fautori italiani. L’ha fatto da giornalista, da capo delle pagine culturali d’un’infinità di testate, da consulente editoriale, Come tale, ha rivelato i due migliori romanzieri italiani della generazione, diciamo della “mezza età”, Vladimiro Bottone, e Wanda Marasco, da lui acquisiti alla Neri Pozza. Ma era qualcosa di più. Era una miniera. Di idee, immagini, battute. Era anche un ciclotimico, che trascorreva dall’allegria e al conio di battute, a sorrisi d’infinita mestizia.

Non gli mancava nulla. Il successo mediatico, accademico. La generosità del carattere.  Una bella moglie, gran signora. Una figlia romanziera di talento. Una certa agiatezza, qual può essere concessa a noi sventurati che viviamo dello scrivere. Perché quella mestizia? Forse perché sapeva che, se avesse avuto forza di concentrazione e di sacrificio, di sottrarsi a quel po’ di vita mondana che con grande distinzione arricchiva: se, insomma, si fosse sacrificato ed il suo tempo avesse sacrificato, un bel romanzo, all’altezza del suo ingegno, avrebbe potuto scriverlo. Aveva soli sessantasei anni! Due, tre anni ancora, e avrebbe dato un calcio a tutte stè pampuoglie e ci avrebbe lasciato un’altra immagine di sé. Virtuale, essa vive nel cuore degli amici.

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*Da Il Fatto Quotidiano del 5.8.2019

Paolo Isotta*

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