Cultura. Dalle avventure di Ulisse allo strano viaggio di Pierre Drieu La Rochelle

Drieu
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“E lieto del vento Ulisse apriva le vele.” Così Omero nel libro V dell’Odissea. E in quella letizia di Ulisse Omero ci descrive la condizione autentica dell’uomo, che è insieme nostalgia ed irrequietezza, un andare che è un tornare. Come scrive Marcello Veneziani, proprio dell’uomo non è lo stare presso la casa, né l’andare lontano dalla casa, ma il tornare, “che è l’unico modo umano di conciliare l’essere col movimento… Il più alto e compiuto divenire umano è divenire ciò che si è, non restare pietrificati nella condizione originaria né divenire altro da sé, ma realizzare la propria potenziale natura.” (1). Ma tornato ad Itaca, fatta strage dei Proci e riconosciuto da Penelope, che farà Ulisse? Passerà il resto della vita a vedere “il fumo che sale dai tetti di Itaca”? O lo riprenderà l’irrequieta voglia di viaggiare con i compagni  “e volta nostra poppa nel mattino, / de’ remi facemmo ali al folle” (Inferno, canto XXVI), come vuole Dante? O piuttosto avrà nostalgia della maga Circe, di Calipso dai bei riccioli o forse di Nausicaa simile a una dea, come sembra suggerire Borges? “A dispetto di un dio e dei suoi mari / Ulisse è tornato al suo regno e alla sua regina / (…) ma dov’è quell’uomo / che nei giorni e notti dell’esilio / errava per il mondo come un cane / e diceva che Nessuno era il suo Nome?” (2). I poeti moderni s’interrogano e mostrano l’altra faccia della nostalgia. Al viaggio è essenziale il senso dell’avventura (non a caso la parola viene dal latino advenire, vale a dire affrontare ciò che accadrà). Il viaggio è l’archetipo fondamentale  e più diffuso della nostra civiltà, rappresenta la vita stessa dell’uomo, è la ricerca di sé, il mettersi alla prova, è un “incontrare sé stesso nel mondo” (Ortega y Gasset) attraverso la conoscenza e l’esperienza di genti, linguaggi, costumi, luoghi, vicende. Ma il senso dell’avventura cambia col tempo.

L’Odissea è il poema del viaggio. E’ il paradigma per tutti i successivi poemi e romanzi della nostra civiltà letteraria a cominciare dall’Eneide fino ai romanzi di Jules Verne e alle avventure del Gabbiere di Alvaro Mutis. Sullo sfondo vi è una civiltà in ascesa. Gli dèi intervengono nelle vicende umane, déi e uomini si parlano e l’eroe si sente a casa nel mondo, non c’è iato tra uomo e natura. Spigoliamo qua e là nel poema: “Ed ecco quand’era per giungere all’amena città / gli va incontro Pallade Atena in figura / di fiorente fanciulla che in mano recava una brocca” (libro VII); “e la notte scese / rorida e noi ci assopimmo dove l’onda si frange.” (libro IV);  “Pietà sentì dell’errante Ulisse paziente, / come folaga a volo emerse dal mare, / si posò sulla zattera e disse all’eroe:” (libro V); “Al brillare dell’Aurora, che rosee ha le dita” (libro VIII). “Ma contro le navi il tonante Zeus, / che i nembi raduna, scagliò una tempesta / orrenda col vento di Borea: e nembi di pioggia / nascosero il mare e la terra” (libro IX); “Spingemmo in silenzio a riva la nave / dentro un seno tranquillo; un dio ci guidava” (libro X); e così via. Ma ecco che nella civiltà della tecnica accade che il mondo perda a poco a poco il suo incanto. Già nel 1600 con l’affermarsi della ragione matematico-scientifica l’uomo ha spezzato il filo che lo legava alla natura e alla divinità, si è separato dal divino e, restando solo con le cose, le ha spogliate d’ogni significato simbolico, del loro proprio valore. Ha con esse un rapporto di mero dominio in nome del profitto individuale. Non a caso è don Chisciotte il primo romanzo moderno. Osserva in proposito Ortega y Gasset: “fiore di questo nuovo e grande indirizzo che assume la cultura è il Chisciotte. In esso declina per sempre l’epica con la sua aspirazione a sostenere un mondo mitico confinante con quello dei fenomeni materiali, ma da esso distinto. Si salva, è vero, la realtà dell’avventura; ma tale salvezza implica la più pungente ironia. La realtà dell’avventura si riduce all’ambito psicologico” (3). Il viaggio, dunque, si fa strano. C’è sempre la volontà d’avventura, ma la scena è dominata dal disorientamento, dallo spaesamento, dallo scacco. Gille, il protagonista de L’uomo coperto di donne e di Che strano viaggio di Drieu o Gilles, il protagonista del suo omonimo romanzo, testimoniano appunto questa scissione tra sogno e realtà, tra divino e umano. L’uomo si separa dagli alberi e dalle stelle e precipita in quell’”immensa palude al di fuori della quale non vi è più nulla” (Che strano viaggio). Certo, l’amore, il pensiero restano “la sola grande risorsa contro il grande silenzio” (Che strano viaggio). Ma si tratta di un’illusione. La decadenza della civiltà prende il sopravvento. “Chi non conosce la campagna d’inverno non conosce la campagna e  non conosce la vita. Attraversando le vaste distese spoglie, i villaggi acquattati, l’uomo di città viene bruscamente messo a contatto con l’austera realtà contro la quale le città sono costruite e racchiuse. Gli si rivela il duro rovescio delle stagioni, il momento cupo e penoso delle metamorfosi, la condizione funebre delle riproduzioni. Allora egli vede che la vita si nutre della morte, che la giovinezza emerge dalla meditazione più fredda e più disperata e che la bellezza è prodotto di clausura e di pazienza.” (4). Già, l’inverno della natura! Che è anche,  per Drieu, una metafora dell’inverno dell’anima, della decadenza della storia e della società, un inverno “più durevole, recante in sé, forse, la minaccia dell’irrimediabile”. (Gilles). Nel passaggio da un mondo all’altro ci sono analogie e differenze. Il viaggio di Ulisse si situa dopo la guerra di Troia, quello di Gilles dopo la prima guerra mondiale; entrambi tornano a casa, Ulisse a Itaca, Gilles a Parigi, ma l’uno si sente a casa, l’altro si sente estraneo; tutte le possibilità sono aperte per Ulisse, il mondo non ha più incanto per Gilles, è dominato dalla tecnica e dall’economia; ci sono ancora avventure per Gilles, le donne e la politica come surrogato del sacro, ma il senso dell’avventura, se non è perduto, si è certamente impoverito. E’ ormai un andare senza meta, senza ritorno. “Non abbiamo mai vissuto tanto miseramente”, confesserà Drieu ne L’uomo pieno di donne.

  1. Marcello Veneziani, Nostalgia degli déi, Marsilio, 2019, p. 291; 
  2. Jorge Luis Borges, Odissea, libro ventitreesimo, da L’altro, lo stesso, in Poesie BUR, 2009, p.179,
  3. Josè Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Mimesis, 2014, p.104;
  4. Pierre Drieu La Rochelle, Gilles, Sugar, 1961, p.522

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Sandro Marano

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