Libri. La regalità antica e il mito ne “La morte di Penelope” di Maria Grazia Ciani

L’Odissea è poema che, nel mondo omerico, celebra la navigazione, la scoperta e il viaggio. È il canto che magnifica la conquista del mare, la violazione dei misteri di Poseidone. Il nome stesso di Ulisse, anzi, di Odisseo, pare a taluni filologi l’assimilazione – nella nascente Ellade – di un antico eroe marinaro celebrato quale dio dalle popolazioni della Caria. L’interpretazione, a dirla tutta, per quanto affascinante resta dubbia.

Troneggiano nel poema figure femminili. Tra queste, svetta Penelope. Moglie devota e integerrima. Regge l’assalto dell’assenza dell’eroe ancor più che quello dei Proci. Ma è nel Rinascimento che la regina di Itaca diventa l’archetipo dell’angelo del focolare. E se non fosse andata così: siamo davvero sicuri che Penelope non tradì mai il re Odisseo?

Apollodoro, scrittore ellenistico attivo nel secondo secolo dopo Cristo, riporta una tradizione che mette in dubbio le nostre certezze: “Dicono alcuni che Penelope fu sedotta da Antinoo […]. Altri dicono che fu uccisa da Odisseo a causa di Anfinomo, perché era stata sedotta da lui”.

Questo è il verso che appare in esergo a La Morte di Penelope, il romanzo (o meglio ancora, la novella lunga) di Maria Grazia Ciani, edito da Marsilio.

Si rende necessaria, atteso lo stato della letteratura italiana, una piccola premessa. L’opera della professoressa Ciani, istriana, grecista di valore assoluto, già traduttrice di Omero e docente all’Università di Padova, non è una cronaca rosa dall’antichità e nemmeno un pamphlet che “usa” la tradizione per stravolgerla a uso e consumo di questa o di quella parte politica, culturale, ideologica.

Trasuda, invece, dottrina e grande conoscenza storica e mitica. Bastano già le prime righe a comprenderlo. Al primo monologo, interiore, Antinoo pensa: “C’è in Lei qualcosa di segreto, è come se custodisse una fiamma, qualcosa che non riguarda il Re ma lei sola”.

Sembra di ascoltare la conversazione a Pafo che il grande mitografo Robert Graves inserisce ne La Dea Bianca. Teofilo  svela i misteri al governatore Paolo, che gli disvela la natura, reale e regale, delle Vestali romane: altro che “vecchie zitelle”, in loro c’è la fiamma della regalità che si trasmette, in tempi arcaici, solo per via femminile e non maschile.

Quella custodita da Penelope dà il diritto a Odisseo di regnare su Itaca. E lo nega a Telemaco che, peraltro, non ha ancora fatto nulla della sua vita; non ha ancora la risposta alla domanda omerica per eccellenza: “Chi sei tu, tra gli uomini?”.

Il matrimonio con una donna di stirpe regale conferisce all’eroe il diritto al regno. La trasmissione della regalità per via matrilineare non è ancora quella indoeuropea che, invece, postula la patrilinearità.

Penelope appartiene alla più bella nobiltà del suo tempo. Lei è figlia di Icario, re di Sparta insieme al fratello Tindaro che è padre di Elena e Clitemnestra. Loro saranno sposate a Menelao e Agamennone che, a loro volta, diventano re di Sparta e Micene e i cui ruoli, tra l’Iliade e fino all’Orestea, saranno decisivi per la storia culturale e politica della Grecia. Nell’Itaca dipinta dalla professoressa Ciani sembra quasi di trovarsi di fronte a un mondo che ancora non s’è piegato del tutto alla cultura degli invasori del bronzo ma che sa di essere alla fine. La regina, per quella fiamma che custodisce per diritto di nascita e intravista dal pretendente Antinoo, appare quasi la testimonianza di un sostrato più antico che è anteriore allo stesso mondo omerico.

È per ottenere questa regalità, dunque, che i Proci la chiedono in sposa e non le torcono un capello. Non per amore, nemmeno perché incantati dalla sua grazia: ma perché ambiscono a un trono che solo lei, con lo sposare il prescelto e col portargli  in dote l’ambita fiamma, può dare.

Antinoo (in postfazione l’autrice spiega di aver scelto tale nome per l’assonanza con quello del favorito dell’imperatore Adriano, che poi lo divinizzò, sostituendolo al più probabile Anfinomo) è il più carismatico e dignitoso dei pretendenti. Eppure si pone fuori dalla regalità perché, a differenza di tutti, s’innamora di Penelope.

Ella è nella novella assai differente dall’immagine che s’è imposta di lei: bruttina, specialmente se paragonata alla magnifica Elena. Ha però una spiccatissima intelligenza. Goffa come un’anatra, da cui (concordando ancora con Graves) si fa discendere l’etimo del suo nome. Ma è intelligente e intuitiva; si rivela capace di tener testa al tenebroso Odisseo di cui, dopo vent’anni di assenza, ricorda a stento le fattezze ma benissimo il genio.

Penelope, protetta dal suo velo, disprezza i Proci. Sono caduti tutti nella trappola: ella consente loro di svuotare le dispense del Re e le gozzoviglie li indeboliscono sia nella mente che nel corpo. Tutti, tranne Antinoo. Egli è diverso dagli altri, davanti a lui il velo della regina cede. Non solo perché gli è riconosciuto un ruolo di capo: perché lui brama la donna, non il trono. Lei capisce e cede. Non abdica al ruolo regale perché stabilisce che Telemaco regnerà e che lei andrà sposa a quell’uomo lontano dall’isola. Commette, però, uno sbaglio: s’inventa la prova dell’arco del Re. Una sfida di merito che prelude alla conquista di un trono.

I Proci, entusiasti, si cimentano tutti. E falliscono. Antinoo non vuole vincere Penelope come fosse una schiava all’asta. Si sottrae alla prova. La regina ha giusto il tempo di capire che s’è spinta troppo oltre e che il fallimento suo sarà punito.

Il Re, non conosciuto da nessuno, è finalmente rientrato ad Itaca. Ha smesso i panni del mendicante e ha provato la sua forza, la sua identità e il suo diritto al trono vincendo la prova dell’arco. Dà  dunque luogo alla feroce e organizzata strage donde tutti gli usurpatori, indifesi, sono macellati; uccide con la freccia, colpendola subito dopo Antinoo, anche Penelope. Di lei, il polytropos ha intuito il tradimento. La assassina, dunque: o, se si preferisce, la giustizia. Senza temere di perdere un’oncia della regalità che, invece, gli sarebbe dovuta discendere intera da lei. Odisseo impone una nuova concezione del comando e del diritto al regno, imponendo una volta e per tutte la linea maschile dell’eredità al trono?

La storia è scolpita in monologhi e dialoghi brevi. Non c’è né una parola di troppo, né una di meno. La sensibilità dell’autrice evita ai suoi personaggi la sentenziosità che altrimenti appesantirebbe il racconto.

Parlano gli occhi ne La Morte di Penelope. Tutto si gioca sul canto degli sguardi tra i protagonisti, deuteragonisti e persino antagonisti. Si ascolta l’eloquenza del silenzio battuto dalla risacca mentre, tra le pagine, sembra di riuscire a sentire la salsedine del mare antico, colore del vino.

La morte di Penelope di Maria Grazia Ciani, Marsilio. 95 pagg, 12 euro. 

 

 

Giovanni Vasso

Giovanni Vasso su Barbadillo.it

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