Calcio. Ho creduto nel Sarrismo e adesso mi ritrovo solo un (altro) Tony Blair

Fa davvero male vederlo seduto al microfono con quella giacca, con quella cravatta, con quella “J” (di Juventus) cucita sul taschino. Per Maurizio Sarri è invece tutta un’altra storia, perché a Torino – parola sua – può coronare finalmente “la carriera di allenatore”. Un’uscita che più algida e razionale di così non si può. Svanisce così la narrazione sarrista, sconfitta sul campo e malmenata dalla storia. Serve ora un salutare benché drammatico bagno di realtà per smaltire la sbornia. L’illusione che l’ex bancario operaista di Castelfranco potesse essere il vate di una rivoluzione calcistico-culturale in salsa populista si è risolta per quello che era: un’illusione, appunto.

Una sovrastruttura creata ad arte, un pallone d’oppio buono per tutti i popoli, persino quelli che con il Vesuvio hanno ben poco a che spartire. È stato bello crederci, far finta che tutto fosse vero. Non solo all’idea che lo Scudetto dopo sei stagioni (oggi otto) potesse essere scucito dalla maglie bianconere. Ma anche al prurito intellettuale che il calcio sia soltanto la grande metafora di un sogno metapolitico realizzabile concretamente nello spazio e nel tempo.

L’assalto al Palazzo, le undici avanguardie della rivoluzione, l’oppressore sabaudo. Era tutto molto palpabile, quanto i dispacci visionari di Sandro Ruotolo, portavoce honoris causa del Soviet Sarrista. Maurizio de Giovanni ci aveva offerto una definizione insuperabile: “Il Sarrismo non è un modulo di gioco, è una precisa filosofia. Il sarrismo è la vittoria finale del movimento operaio e della fantasia sulla programmazione ottusa, becera, squallida. Il sarrismo è la vittoria dell’immaginazione, è l’immaginazione al potere. Il sarrismo è immaginazione”. 

È stato bello crederci. Ne avevamo tutti bisogno, malati d’ipocrisia come siamo. In fondo, la strada che da Napoli ha portato Sarri a Londra è la stessa che oggi lo ha spinto tra le braccia sabaude. Ma abbiamo voluto far finta di niente. La medesima traiettoria che ha portato socialisti ed ex comunisti a ingurgitare il sogno politicamente corretto di Bill Clinton, Tony Blair e della Terza Via. Quella stessa sinistra (e Sarri pare oggi esserne il candidato naturale alla leadership) tanto attenta ai dettami dello spread quanto alla vetta della classifica. Giammai alle esigenze di chi la periferia (o la provincia) è costretto a viverla giornalmente. 

È vestita in giacca e cravatta la rincorsa all’inutile, avvilente, noioso nono scudetto consecutivo. Perché di Champions, francamente, è meglio non parlarne. Avremmo sperato che tutto ciò non sarebbe mai accaduto, che Sarri avrebbe preferito l’esilio calcistico alla Torino degli Agnelli, l’ultima grande dinastia del capitalismo non più tricolore. Speravamo che il calcio potesse essere altro dagli ingaggi milionari e dall’avanzata dei fondi d’investimento. L’impero però ha colpito ancora. Sempre con lo stesso mezzuccio: panem et circenses, sinistra e caviale.

@fernandomadonia  

Fernando M. Adonia

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