Libri. “Il giovane europeo” di Drieu: indirizzi per una giovinezza tra azione e sogno

Pierre Drieu La Rochelle
Pierre Drieu La Rochelle

“Sono disperato, io, l’europeo, ma amo anche tutto ciò che fu e che se ne va”

(Pierre Drieu La Rochelle)

Quando nel 1927 Drieu, che ha da poco compiuto 34 anni, scrive Il giovane europeo, ha già una certa notorietà nel mondo delle lettere. E’ autore di due raccolte di poesie Interrogation (1917) e Fond de cantine (1920), di un’opera memorialistica Stato civile (1921), di un originale saggio politico, piuttosto apprezzato dalla critica, Misura della Francia (1922), di un volume di racconti Plainte contre contre inconnue (1924) e di un romanzo non del tutto riuscito, L’uomo coperto di donne (1925), nel quale, dopo un inizio sfolgorante, la scrittura si appesantisce in una trattazione sull’eros, che ne spezza l’unità narrativa. Proprio nel Giovane europeo Drieu confesserà a proposito del suo primo romanzo (la cui materia sarà ripresa con esito indubbiamente felice in Che strano viaggio del 1933):

“Quando mi accostai alla carta la mia penna si mise a correre e rovesciando le barriere una confessione imperiosa rovesciò la sua impaziente ondata. Nel giro di tre giorni avevo scritto cento pagine, duecento pagine nel giro di sette giorni. Tutta la mia odissea sessuale si dipanava, sfrontata, miserabile”.

Drieu ha partecipato alla guerra mondiale, distinguendosi e riportando ferite in più occasioni e, dopo un’iniziale adesione al movimento dada ha rotto con Aragon e i suoi amici surrealisti, che nel frattempo avevano aderito al comunismo. Conduce una vita disordinata, passando di avventura in avventura, “amante di belle donne eleganti, raffinate ma soprattutto ricche e compiacenti sia nei favori d’alcova sia nell’elargire denaro… ma anche di donne di postribolo, anonime puttane con le quali giacere” (Moreno Marchi). Nel Giovane europeo scriverà: “scuola perfida del desiderio. Perché questa piuttosto che quella? Tutte assieme, nessuna”. Ma è soprattutto un intellettuale che si interroga sull’epoca nella quale vive, intensamente, all’affannosa ricerca di qualcosa che vada al di là della d’una vita piatta e borghese. Alla guerra, che per lui e tutta la sua generazione è stato un trauma, ma anche un evento decisivo, dedica, fatta salva Interrogation, pochi e sporadici cenni nelle sue opere di esordio. E’ come se volesse rimuovere l’orribile carneficina delle battaglie, cui ha partecipato, e solo molto più tardi, dopo una lunga gestazione, quell’esperienza troverà un’espressione letteraria, tra le più alte della narrativa mondiale, in due capolavori: nei racconti de La commedia di Charleroi (1934)  e nel romanzo della maturità Gilles (1939).

La sua giovinezza, dirà poeticamente nel Giovane europeo, “è scivolata come una lettera nella posta che mi sono spedito da solo e che non ho mai ricevuto.” Ma che cos’è Il giovane europeo? Non è un romanzo né un saggio in senso classico. E’ piuttosto un’autobiografia mascherata (sulla stessa linea di Stato civile), un’opera ibrida, come scrive nell’introduzione il traduttore e curatore Marco Settimini, “tra racconto e pamphlet, autobiografia e meditazione sulla storia e la società degli anni Venti, nella quale si specchia e dalla quale si discosta.” Il giovane europeo è lo stesso Drieu, in bilico tra l’azione e il sogno: “avevo ancora tra i piedi l’ostacolo di un dilemma grossolano: l’azione o il sogno. Immaginavo che fosse permessa soltanto la loro alternanza: non pensavo al mezzo di riunirli e mi amareggiavo… Eppure l’azione e il sogno, quando li si accosta, si precipitano l’uno verso l’altro per confondersi nella libertà. Sarebbe mai venuto il giorno in cui avrei  posseduto la vita nella sua interezza?” La scrittura allora diventa uno strumento di libertà, una necessità interiore, gli consente di superare la propria connaturata pigrizia e la propria solitudine:”un giorno, per strada, dopo una grande tristezza e siccome avevo errato a lungo, mi venne nuovamente voglia di scrivere, ma non più di me stesso. Mi venne voglia di scrivere una storia che sarebbe uscita da non so dove, una storia come quella canzone popolare che si udiva in ogni angolo del  quartiere dove vagavo. Ebbi di colpo una sensazione di evasione… pensavo al fatto di raccontare una storia come si canta una canzone. Una storia, è una canzone un po’ lenta.” Il testo è diviso in tre parti, due senza soluzione di continuità quanto alla forma, intitolate rispettivamente Il giovane europeo e Il sangue e l’inchiostro, la terza, suddivisa in capitoletti, intitolata Il music-hall,  ha un andamento più spiccatamente saggistico. Il tema che viene trattato in queste pagine è una sorta di fenomenologia d’una giornata borghese. Lo scrittore è insieme testimone e critico di quel mondo a cavallo tra le due guerre mondiali, in una Parigi scintillante, dove ad ogni passo si toccano con mano gli eccessi, la disperazione, lo smarrimento: “L’essere che rappresentavo era l’uomo di quest’epoca. Ma cosa vale l’uomo di quest’epoca? Che cosa vale quest’epoca? Ritornavo alla questione dell’epoca. Nel mio cuore era da tempo risolta. Quest’epoca non vale niente.” Lo scrittore rompe “il corso selvaggio, oscuro ed innocente” del proprio pensiero per guardare con amara ironia a  quel mondo moderno, di cui è insieme spettatore e attore: “facciamo il nostro ingresso in un’epoca nella quale la vita non è che un sonno collettivo… ognuno non pensa che alla sua individualità, ma per nutrire quest’individualità trova solo un pasticcio comune, una brodaglia sempre più pesante… L’individualità esasperata, estenuata, finisce col morire, e da essa nascerà un comunismo liquido, inevitabile.” Tanto più risalta a questo punto il confronto tra l’uomo medievale del secolo XIII e quello contemporaneo, la differenza delle loro credenze vitali: “Nel XIII secolo, quando un viaggiatore arrivava in una città, forse prima di dedicarsi ai propri affari, andava in chiesa. Se non conosceva la parlata del posto, e anche se la conosceva, siccome soffriva dell’aspetto insolito di ogni cosa, è in quel luogo che si rimetteva a proprio agio e, tuffandosi nella cattolicità, si dimenticava di essere straniero… Nel XX secolo, quale che sia la grande città in cui si ferma l’uomo errante”, non c’è che “lo splendore del denaro cui si va alla ricerca ogni giorno in quella città come in tutte le altre.” Un particolare interesse riveste il VI capitoletto della terza parte intitolato “Dialogo tra me e un altro”, dove si contrappongono due visioni della storia e del mondo: una incentrata sulla decadenza e sulla dissoluzione di un mondo e un’altra che vede nell’avvenire nuove opportunità. Il disincanto e il pessimismo si oppongono dialetticamente alla speranza e all’ottimismo. Il dialogo si svolge alla maniera socratico-platonica, per tesi ed antitesi, e la conclusione resta problematica. Drieu avverte dolorosamente il declino dell’uomo, il dissolversi dei legami familiari, erotici, sociali, attribuendolo alle macchine, alle tecnologie che rischiano di portare l’uomo alla perdizione, di sovrastare l’umano, la manualità e la bellezza che da essa è generata: “l’uomo sta per morire. L’uomo che abbiamo concepito, amato, lodato… Per me quest’avvenire è la fine, perché non prolunga nulla di ciò che chiamiamo umano. Tutti i valori di cui viviamo scompaiono… Ho dato tutto il mio amore a ciò che conosco. Non posso sostituire la mia ragione di vivere con la mia ragione di morire.” La replica dell’interlocutore (che è poi lo stesso Drieu) è che questa è una visone “guercia” del futuro: “non puoi condannare senza rimedio un futuro che ti riserva solamente delle sorprese… Non siamo feticisti, non attribuiamo tutto il nostro interesse a una statua  di marmo che si può rompere, ad una macchina che la ruggine minaccia… l’uomo non finisce più di quanto cominci, non si può dire: l’uomo è, è stato e sarà questo.” A questo argomento Drieu, con una premonizione ecologista, oppone che “questo stesso pianeta viene meno sotto i nostri piedi” e che “no, l’uomo è una specie terrestre; per ogni specie c’è un punto di prosperità che non può superare.” Né lo convince il mondo prefigurato dall’interlocutore ben prima del romanzo di Huxley (il romanzo Il mondo nuovo è del 1932) nel quale gli uomini per lo più sterili si riprodurranno in modo artificiale al di fuori delle famiglie, vivendo a lungo e tenendo a bada aggressività e noia grazie alle droghe e alle discipline sportive. “La vita universale continua: dalle ceneri dell’uomo sta per creare un nuovo essere: per questo nuovo essere ci saranno nuovi valori. L’apprezzamento di questi valori freschi ci sfugge completamente; denunciano un mondo che ci è del tutto estraneo.” Drieu nella conclusione, che trae con un rigoroso sillogismo, sembra parteggiare per la catastrofe, per la distruzione del mondo contemporaneo, sola premessa per una rinascita: “L’oggi è cattivo, il domani è interamente incluso nell’oggi. Bisogna distruggere l’oggi e il giorno passato rinascerà. Dietro il conservatore si fa avanti il reazionario.”

*”Il giovane europeo” di Pierre Drieu La Richelle, (edizioni Aspis, 2019, pp. 133, € 20)

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Sandro Marano

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