Libri. La terra dell’origine: Bachofen e “i paesaggi dell’Italia Centrale”

Appennini
Appennini

Nel mondo della Tradizione lo spazio e il tempo non erano considerati omogenei. Vi erano tempi propizi  ed altri che non lo erano. Anche lo spazio, in termini di geografia sacra, aveva connotazioni diverse. Era il Genius loci, vale a dire l’anima di un luogo, a connotarlo in un senso o in un altro. Ne determinava, innanzitutto, il paesaggio, frutto dell’interazione dell’anima con l’azione che gli uomini esercitavano sulla sua materia naturale. Uomini, inutile dirlo, che a loro volta instauravano un rapporto simbiotico con la terra natale, che lì segnava di sé. Per questo, sosterrà Heidegger, nel pieno dispiegarsi dell’Impianto della tecno-scienza, che abbatte, nel suo percorso di macchina senza guida, limiti, confini e frontiere, non possiamo che esperire il malessere dello spaesamento, dell’essere, nel globalismo trionfante, senza Heimat, terra madre, accogliente, ma anche Patria, Terra dei padri. Il nostro esser pienamente uomini, per dirla ancora con il filosofo di Essere e tempo, esige il poter abitare poeticamente la Terra. Queste poche battute iniziali, ci paiono essenziali per introdurre in modo acconcio il nostro lettore ad un libro di Johann Jakob Bachofen, Paesaggi dell’Italia Centrale, da poco edito da AR (per ordini: info@libreriaar.com, pp. 100, euro 14,00).

   Come ricorda in Prefazione il curatore Umberto Colla, il volume è, in realtà, il primo capitolo della Storia dei Romani, di Franz Dorotheus Gerlach e, appunto, Bachofen. Si tratta di un libro che, dal punto di vista metodologico, rappresenta davvero l’antitesi più radicale all’approccio storiografico che iniziava ad affermarsi allora in Europa, vale a dire quello scientifico-accumulativo. Esso inaugurava una stagione di studi nella quale all’Antico ci si sarebbe rapportati attraverso le categorie esegetiche proprie della modernità. Ciò comportava l’incapacità di comprendere l’ubi consistam del mondo classico. A ciò vollero ovviare Gerlach e Bachofen con la loro opera. La cosa la si evince in modo chiaro nel libro di cui stiamo discutendo. Colla nota come, fin dalla pubblicazione della Nascita della tragedia di Nietzsche, si fosse aperto in Germania un ampio dibattito sull’arte tragica, che vide contrapposti tra loro i Berlinesi, esponenti della filologia classica austera ed accademica, impersonata da Wilamowitz, e quanti, al contrario, ritenevano che la comprensione dei documenti, dovesse essere ravvivata dalla viva voce di quei popoli del passato  e sostanziata dalla loro visione del mondo, fondamentalmente centrata su un vitale rapporto con il sacro e gli dei.

L’esito ultimo, per quanto attiene agli studi di romanistica, o meglio la vera e propria deriva, cui pervenne l’indirizzo critico-positivista, va individuato nei lavori del Mommsen, non casualmente suocero di Wilamowitz, che ridusse: «le gesta dei Romani a imprese commerciali» (p. 11). A un errore così madornale, non poteva non rispondere Bachofen, che ebbe l’ardire di sostenere che il suo modello storiografico restava Livio, lo storico della Tradizione, legato alla visione mitica delle origini. Perciò: «Con un senso di vergogna, non con arroganza la nostra misera stirpe dovrebbe guardare la forza e l’altezza di sentire del mondo antico e dei suoi popoli» (p. 11). Bachofen, mostra una prossimità significativa, alle tesi di Hölderlin che nell’Iperione aveva accusato la pedanteria accademica tedesca, fedele alla lettera del mondo antico, di aver profanato il nome degli dei, dei numi tutelari della civiltà classica, e ciò era l’esito del: «socratismo volto alla soppressione del mito» (p. 12).

    La lettura de I paesaggi dell’Italia Centrale risulta oggi, da un lato, ristoratrice, visto il livello pervasivo cui è giunta la demitizzazione della realtà, e dall’altro strumento utilissimo, per entrare nelle vive cose della prospettiva bachofeniana. E’noto che lo studioso di Basilea subì il fascino dei suoi soggiorni in Italia. La cosa è evidente nei Paesaggi. In essi muove dalla descrizione, in certi tratti carica di commozione, degli aspetti fisici e geniali di quella che fu la Saturnia Tellus, vale a dire delle regioni italiche che si aprono sui lati occidentale ed orientale della dorsale appenninica. Guide eccelse dello storico svizzero sono gli auctores, che egli mostra di conoscere come pochi. Su tutti il Virgilio delle Georgiche, che conduce il lettore nel Latium Vetus, di cui ha detto, con persuasività di accenti, il più grande glottologo italiano di inizio XX secolo, Luigi Ceci, anch’egli mosso da evidenti intenti polemici anti «berlinesi». Il Lazio trae il proprio nome da lateo, suggerisce il curatore, vale a dire «sto nascosto», in quanto nei suoi confini, trovò rifugio Saturno, per sottrarsi all’ira di Giove. Per questo ricompensò il re Giano che lo accolse e il suo popolo con il dono dell’agricoltura. Insegnò loro, inoltre, l’arte del costruire le Città. Non è casuale che nell’attuale frusinate, sorgano le cinque città saturnine, i cui nomi iniziano con la lettera «A» (Alatri, Arpino, Anagni, Atina, Arce), che vantano Acropoli circondate da mura megalitiche, sedi dell’originaria civiltà pelasgica. Resti simili si trovano sulla sommità del Monte Circeo, studiati da Evelino Leonardi, erudito vicino al Movimento Tradizionalista Romano, che ebbe rapporti con Julius Evola.

   Bachofen, ritiene che la terra, il paesaggio, abbiano svolto un ruolo pedagogico essenziale sui  popoli italici. A suo dire, la materia (mater) è la prima forma dell’esistente: «guida sicura del primo incivilimento delle stirpi umane» (p. 15). L’intera civiltà antica, sorse, prima dell’avvento del cristianesimo, su quest’idea di natura generatrice e protettrice. Il cristianesimo impose l’astrazione del proprio dio trascendente, determinando la sincope dell’Antico. La descrizione del Lazio agreste e pastorale, non ha però in Bachofen il valore di semplice rievocazione idilliaca. Le sue descrizioni sono perfuse dalla malinconia. Ebbe, infatti, la ventura di trovarsi in questi luoghi ed a Roma tra il 1848 ed il 1849, mentre impazzava la rivoluzione: maturò la certezza che l’età dell’oro, tanto agognata, era ben lontana dall’immiserito presente. Colla ritiene che, a differenza del poeta Vincenzo Monti, che cantò il possibile ritorno della ninfa Feronia, Bachofen fosse rassegnato a pensare a quel lontano passato come irrecuperabile.

   Non ne siamo convinti. Nel Matriarcato, l’erudito di Basilea teorizzò, in una prospettiva di simbolica della storia, l’origine come sempre vigente nel tempo, quindi come sempre possibile. In modo più esplicito tale possibilità fu paventata da Ludwig Klages, che sapeva che l’anima avrebbe potuto essere rievocata in un’azione atta a sottrarre l’Europa a ciò che egli, impropriamente, chiamò lo Spirito, e che avrebbe dovuto chiamare, più opportunamente, concetto o ratio. 

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Giovanni Sessa

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