Il caso (di E.Nistri). La quota sovranista nella musica al tempo della colonizzazione dell’immaginario

Note patriottiche

La proposta di imporre alle emittenti pubbliche e private di trasmettere un’aliquota minima di “musica italiana” si presta a diverse considerazioni. Da un punto di vista filologico, l’espressione è inesatta: quello della musica è un linguaggio universale, che non conosce confini nazionali. È un po’ come la filosofia: al liceo si insegna quasi soltanto la storia della letteratura italiana, ma i pensatori si studiano senza distinzioni etniche. Anche le emittenti private che si vantano di trasmettere “solo musica italiana”, come Radio Italia o Radio Margherita, di cui chi scrive è un fedele ascoltatore, in realtà non la trasmettono affatto: mandano in onda, infatti, anche canzoni composte da stranieri, ma interpretate da cantanti italiani, o anche da cantanti stranieri che le interpretavano nella nostra lingua. Fino agli anni Sessanta e ai primi Settanta era infatti normale che, analogamente a quanto avviene tuttora nel cinema con il doppiaggio, le canzoni straniere venissero tradotte in italiano. Un esempio per tutti: la bellissima Delilah di Tom Jones cantata da un grande e poco fortunato interprete come Jimmy Fontana, con il titolo “La nostra favola”. Non sempre le traduzioni erano fedeli, anche per motivi di metrica. Per esempio, l’intercalare “ye ye” tipico di tante canzoni dell’epoca nasceva dalla necessità di trasferire in italiano le parole di una lingua in prevalenza bi o monosillabica come l’inglese. 

Una pratica del genere aveva una sua logica: una canzone è una sintesi di parole e musica, di contenuti e armonie. Un pubblico che conosceva poco le lingue si sarebbe sentito defraudato se non avesse potuto capire il senso di quello che ascoltava. C’era una maggiore tolleranza per le canzoni francesi, riservate a un pubblico elitario, visto anche che fino agli anni Sessanta la lingua d’Oltralpe era studiata più dell’italiano nelle scuole. 

La situazione cambiò con gli anni Settanta, non solo per il dilagare dell’anglofonia (e anche dell’anglomania), ma anche per la strategia delle grandi case discografiche statunitensi, volte a monopolizzare il mercato. Una strategia che vide anche la delegittimazione del classico appuntamento musicale italiano, il Festival di Sanremo, ridimensionato nel palinsesto Rai, e di una trasmissione come Canzonissima, che, abbinata alla Lotteria di Capodanno, rappresentava un secondo festival che si protraeva da settembre alla notte dell’Epifania.

Eccesso di anglofonia

Da allora l’anglofonia è dilagata nelle radio private e nelle stesse emittenti pubbliche, con grave pregiudizio dei nostri autori e dei nostri interpreti. Sotto questo profilo, la proposta avanzata dal leghista Alessandro Morelli merita di essere presa in considerazione, almeno per quanto riguarda le emittenti pubbliche, per le quali semmai i termini della questione potrebbero essere rovesciati: non una canzone italiana ogni due straniere, ma l’esatto contrario. 

Sarebbe onesto, però, porsi anche un altro quesito: quanto, delle canzoni interpretate oggi da italiani e in italiano, è conforme alle tradizioni musicali nazionali? E quante canzoni cantate in italiano non sono invece pensate in inglese, in dipendenza di mode provenienti dagli Stati Uniti, magari dai ghetti afroamericani? Il caso più  evidente è costituito dal rap, la cui diffusione costituisce nell’ambito musicale l’equivalente dell’abolizione della versione dall’italiano in latino nell’ambito scolastico. Se questa permise anche a chi aveva poca dimestichezza col la sintassi e la morfologia di cavarsela con qualche traduzione a senso, quella permette di definirsi cantante anche a chi non ha voce o addirittura è stonato, solo perché recita spesso assurde filastrocche. È l’ennesimo vulnus recato alla nostra identità culturale e alle nostre tradizioni di bel canto: un’ulteriore forma di colonizzazione della sensibilità musicale delle nuove generazioni parallelo alla colonizzazione del nostro immaginario collettivo operata dall’immissione massiccia di sceneggiati televisivi made in Usa nelle nostre reti. Contro di essa, le leggi sono impotenti: non si può contingentare un genere musicale.

Resta il fatto, però, che come sosteneva Confucio la corruzione della musica accompagna e spesso precede la corruzione della società.

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Enrico Nistri

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