Pallone d’Oro. Fenomenologia di Modric, architetto perfetto che ha sovvertito le regole

Luka Modric
Luka Modric

In principio fu Ronaldo. Era il 2008 quando CR7 ottenne per la prima volta il massimo riconoscimento individuale, il Pallone d’Oro. Nel frattempo stava sbocciando il talento di Messi, destinato a dominare la scena calcistica per 4 stagioni, per poi cedere lo scettro a Ronaldo e al suo regno. Un dominio destinato a durare nel tempo, come quello dell’argentino, progrediti entrambe di pari passo con i successi di squadra, salvo rare e forse scandalose eccezioni. Come quella del 2010, quando, dopo una stagione incolore a livello internazionale con Barcellona e Argentina, Messi venne preferito a Sneijder, grande protagonista con Inter e Olanda, a Milito, trascinatore dell’Inter del Triplete, e ad Iniesta, fautore della storica vittoria spagnola al Mondiale. O quando, nel 2013, nonostante la splendida cavalcata in Champions del Bayern trascinato da Ribery e Robben o la splendida stagione di Pirlo, tale premio venne assegnato a Ronaldo. 

Sicuramente al verificarsi di questi episodi hanno contribuito fattori commerciali o di sponsorizzazione, che vanno ad individuare tra i calciatori migliori, l’icona su cui costruire un business, a scapito del merito. Merito secondo cui andrebbe valutata invece la singola stagione, dato il carattere annuale del premio,.
Quest’anno la diarchia è crollata. Che dire? Da una parte è stato un periodo magnifico, che ci ha permesso di vedere due geni del calcio duellare per i premi più ambiti, a colpi di magie e di record, e trarre motivazioni sempre nuove dal confronto con il rivale; dall’altra però ci aveva un po’ stancato vedere sempre le stesse facce ai vertici e tanti, troppi, esclusi eccellenti.
Mai come quest’anno con la vittoria di Modric, ha inciso la stagione disputata, coincidente col Mondiale di Russia, spartiacque decisivo.
Chi pensava in una redenzione albiceleste di Messi o in un super mondiale è rimasto deluso. A sorprendere tutti è stata la storia della Croazia con le magie di Modric, ancor più della vena di Griezmann e soprattutto dell’enfant prodige Mbappé, matador di Argentina e Croazia.
Modric, un architetto del calcio, di quelli che mettono le basi per le azioni da gol, ma anche un visionario, per la capacità di vedere in anticipo la giocata giusta da fare, di prevedere il movimento del compagno. E’ questo tipo di giocatori, come furono anche Xavi e Iniesta nel Barca, Pirlo da noi (anche lui con un passato sulla trequarti), che fa la fortuna dei grandi attaccanti, dai nostri Inzaghi, Shevchenko o Tevez, ai mostri sacri Messi e Ronaldo. 

Mentre i geni sopracitati sono stati oscurati dalla fama dei compagni (Pirlo da Shevchenko prima e Kakà, Xavi e Iniesta da Messi), ora, liberata dal campo la potente influenza di Ronaldo (passato alla Juve), Modric ha avuto la sua occasione e, vedremo perché, del tutto meritata.
Molti lo hanno paragonato a Johan Cruyff, per l’impressionante somiglianza fisica (viso scavato, taglio di capelli, fisico filiforme), oltreché per il suo maestoso incedere, sempre con il pallone incollato all’esterno del piede destro. Praticamente impossibile rubarglielo, prima che abbia servito un compagno o si sia liberato al tiro.
Come l’olandese volante, pur ricoprendo un ruolo diverso ma sapendosi muovere in ogni zona del campo, dal centrocampo in giù, Modric è un genio del calcio, uno che con una giocata cambia l’inerzia della gara: una punizione, un tiro da fuori, un assist. Prendere ad esempio l’impressionante cambio di marcia nella finale 2017 contro la Juve, dove, come un metronomo, è stato capace di aumentare il ritmo della squadra, confezionando, con una discesa inarrestabile, l’assist per Ronaldo che ha spianato la strada alla  vittoria finale.
Quest’anno, oltre ad aver fatto girare a meraviglia la macchina dei Blancos, con la Croazia Modric, è maturato calcisticamente, facendo capire a tutti la differenza che c’è tra un fenomeno e un campione. Perché da essere una delle stelle più brillanti del Real, è passato a dover essere il faro della Croazia.
Cresciuto nella città di Zara, da sempre teatro di guerra e diverse dominazioni(dai Veneziani nel 1000, alle parentesi ungheresi, di nuovo ai veneziani fino al 1797, dalla dominazione asburgica, alla “redenzione” italiana, fino all’occupazione jugoslava e alla guerra d’indipendenza croata tra il 91’ e il 95’, periodo corrispondente all’infanzia del piccolo Luka) e messa sotto assedio dall’Armata Popolare Serba, Modric trova nel pallone un mondo ovattato in cui trovare rifugio dagli orrori della guerra e dal rombo delle granate. E nel quale poter sfogare la rabbia per l’assassinio del nonno, scagliando tiri potenti come bombe contro i muri dell’albergo che aveva accolto lui e la sua famiglia.
Avrà ripensato a tutto questo Modric, quando, dopo l’addio di Srna, gli è stata consegnata la fascia di capitano, e quando gli è stato chiesto di caricarsi sulle spalle l’orgoglio di una nazione, che ha ancora fresco il ricordo di quegli anni. E ci è riuscito alla grande, regalando la finale ad un popolo di appena 4 milioni di abitanti.
Il nostro novello Davide, piccoletto ma valoroso, ha saputo donare assieme a mister Dalic un’anima ed un’identità alla sua Croazia, che è stata capace di passare, in meno di un anno, dalla mancata qualificazione a sfiorare il cielo con un dito.
Nella Croazia tutte le azioni passano dall’inferno e dai piedi raffinati di Modric, che, spostato venti metri più avanti e scortato da Brozovic e Rakitic (che rimane più arretrato ad imbastire l’azione), è libero di  esprimere il suo estro creativo, per la felicità di Perisic, Kramaric e Mandzukic, innescati in contropiede, oppure riesce sempre a far girare la palla in situazioni meno agevoli. 

Modric ha avuto la sua serata di gloria contro l’Argentina di Messi, quando, oltre ad aver dominato nel palleggio, ha anche regalato un gol capolavoro. Questa vittoria ha messo le ali alla Croazia, capace poi di consolidare il primo posto nel girone contro l’Islanda, capace di dominare ma anche di saper soffrire, come ha dimostrato vincendo ai rigori sia Danimarca, quella del clamoroso rigore sbagliato da Modric, sia Russia, con una grande prestazione del 10.
Ma il capolavoro è stato la gara contro l’Inghilterra con un Modric capace di insegnare, da Principe dei Balcani, l’arte del bel gioco, in un dominio assoluto dei croati, passati però solo al 109′ con Mandzukic.
E infine la capitolazione contro una Francia fortissima, ma dannatamente fortunata e favorita dagli episodi.
Insomma, il Mondiale aveva già fugato ogni dubbio, la palma del migliore spettava a Modric, capace, ancor più di Johan Cruyff e del suo calcio totale, di essere la mente illuminata di una squadra di guerrieri e di portare una nazione minuscola a combattere ad armi pari con le grandi e i grandi del calcio.
Nel frattempo che gli dei  Messi e Ronaldo uscivano a testa bassa dall’Olimpo del calcio sotto i colpi di Uruguay e Francia, come svogliati e scoraggiati da due prestazioni incolori, Modric sputava sangue, rincorrendo il pallone da una parte all’altra del campo, con quella rabbia, quella grinta, quel veleno in corpo, quella fame che la guerra gli ha trasmesso e che Modric non ha mai perso.

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Giacomo Bonetti

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