Calcio. Modric “pallone d’oro” forgiato nella temperie della guerra di Jugoslavia

Modric
Modric

Dopo gli eccessi si torna alla normalità. Si lascia l’Olimpo per l’umano, per il piccoletto che passa come un refolo di vento tra Cristiano Ronaldo e Lionel Messi, interrompendone la diarchia, nel suo miglior dribbling, col Pallone d’Oro. Luka Modrić partito pastore, dopo aver sfiorato la vittoria mondiale, in Russia, dove è risultato miglior calciatore, e con quattro Champions League alle spalle, trova il premio più ambito da singolo, quello che meglio sancisce l’aver giocato sopra gli altri, l’entrata nella ristretta cerchia dei lussuriosi della palla. Bisogna andare al 2007 per trovare un nome diverso da quelli di Ronaldo e Messi, era il brasiliano Kaká che allora giocava nel Milan. Poi è seguito un elenco di caduti al podio: Xavi e Andrés Iniesta,  Franck Ribéry e Manuel Neuer, Antoine Griezmann e Neymar. Aspettando i Mbappé, o forse no, come non sono venuti i Bale, un popolo di calciatori fisici, intanto, nella terra di mezzo con un fisico del passato e una testa del futuro c’è Modrić, il calciatore che fece l’impresa e che ci liberò dalle ossessioni dei due super calciatori. Umano troppo umano. E per fortuna. Un antieroe, leggero, biondo e tenebroso insieme, perché ferito dalla guerra e dall’aver visto uccisioni e razzie, che prima dei campi ha visto un corridoio – dell’’Hotel Kolovare – e dopo un parcheggio. Modrić è un calciatore cresciuto in cattività, durante la guerra in Jugoslavia, un ragazzetto rifiutato perché esile, e divenuto campione perché tenace come il filo di ferro. Capace di difendere il gregge di famiglia dai lupi – in un villaggio di poche case: Modrici, dove sopravvivono loro e il luppolo – e il pallone dagli avversari, di guidare la sua piccola e molto umorale nazionale fino a bordeggiare l’alzata della Coppa del Mondo e di tenere a bada il buco di dolore dell’infanzia, uno capace di assimilare tutto senza farne morale. Silenzioso ed efficace in campo, uno che fa pochi gesti e sempre giusti, non si compiace pur facendo tutto quello che un allenatore gli chiede nel mezzo del campo e con creatività: inventa corridoi, serve compagni nel miglior modo possibile, tirando a porta e segnando – spesso da fuori aria –, in pratica è la terza via: un leader a metà, introverso e balcanico: tipica capacità di sparire per minuti, partite e/o stagioni e di riemergere con capriole da acciughe, che non a caso fanno il pallone come cantava Fabrizio De André. E ora che è sul podio più alto, potrà rivendicare una biografia calcistica da periferia, dove si cresce tra avversità e rabbia, perché ha alle spalle il campionato bosniaco  con lo Zrinjski Mostar – «sputi insulti nessuna tutela. E calci tanti calci, ma se mi lamentavo con l’arbitro mi sentivo rispondere, taci feccia di un croato» – prima di arrivare alla Dinamo Zagabria, per poi vedere la luce di Londra col Tottenham e infine diventare galácticos a Madrid. Quasi un sopravvissuto, scartato dall’Hajduk, squadra per cui tifava, ma senza risentimenti, è un calciatore stratificato in stile e pensiero, tecnica e posizione, che riesce a velocità altissima a gestire e inventare, senza smarrirsi, stando nella zona con maggiore pressione e avendo un ruolo di invenzione quindi ad alta sorveglianza avversaria,  e che riesce ad essere lieve nei tocchi e duro nei contrasti. La sua eleganza alimenta la nostalgia per una specie in estinzione, emigrato Iniesta in Cina, dislocato Xavi in Qatar, dismesso il sistema Pirlo, non ci resta che Modrić, un riempitivo, in attesa della definitiva trasformazione fisica del calcio. Ma per ora c’è e danza con simmetrica precisione senza perdersi il pallone, quella che all’Hajduk era sembrata fragilità era invece una diversa possibilità fisica, che aveva più spigoli che possanza ma che spesso faceva anche più male. Come male ha fatto persino a se stesso ritrattando nel processo della Calciopoli croata che vedeva imputato Zdravko Mamic (poi condannato a sei anni di carcere) dirigente della Dinamo Zagabria che si era inventato un sistema parallelo di ricatti e pizzo sul trasferimento dei calciatori. Un «Non ricordo» pesantissimo, poi finito persino sulla maglia numero 10 della Croazia al posto del nome di Modrić: «Se Ne Sjećam». Un’altra prova di abilità strategia, forse, ma venuta male. Ma tra palombelle e calzettoni, gol e lanci – verticali in nazionale e di controcampo nel Real – e con piccoli movimenti, sta provando a lasciarsi anche questa alle spalle. È un metronomo, prodotto da una dinamica sociale complessa e dolorosa come un paese in guerra, che negli anni è stato capace di misurare le forze in evoluzione in campo, ricreando la capacità di astrarsi e giocare che aveva da piccolo, da sfollato in fuga, condizione che gli ha regalato la calma e la tecnica di uscire dalle baruffe e dalle marcature, di ergersi a punto fermo del centrocampo della Croazia e del Real Madrid, portando svagatamente i gradi di leader, e il suo essere un principio di necessità in ogni partita. [uscito su IL MATTINO]

Marco Ciriello

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