Libri. “Vuoto” di De Giovanni e la noiosa ripetitività del poliziesco italiano

Vuoto di De Giovanni
Vuoto di De Giovanni

Procedendo per eccessi scenografici come le torte del “Cake boss”, tanta pasta di zucchero per avvolgere il nulla, “Vuoto”, (Einaudi) di Maurizio De Giovanni, è una prova di come a volte i titoli raccontino davvero i romanzi e di come il genere poliziesco italiano boccheggi, spiralizzato nella noiosità. Una impalcatura di psicologia spicciola, pagine e pagine di lingua piatta dove bambini e adulti parlano uguale, e uno schema che si ripete mescolando gli stessi ingredienti: commissariato di Pizzofalcone, Napoli, un gruppo di poliziotti fintamente reietti ai quali se ne aggiunge un’altra (ovviamente bellissima) che ha ucciso un pediatra pedofilo: con penoso tentativo di spiegare la carica perversa delle carezze nelle pagine di apertura, allo scopo di dirci che Friedrich Dürrenmatt ha vissuto e scritto invano; e dove questa volta scompare una professoressa, moglie di un industriale delle pentole. Una vicenda così tesa, un thriller così avvincente, che mette il lettore davanti al dilemma: lo abbandono o mi addormento?

A noi tocca andare fino in fondo, dribblando spiegoni inzuppati di retorica da parroco di campagna, ripetizioni da soap-opera – «Pedro, bevi qualcosa, vuoi bere qualcosa» (cit. Marchesini-Solenghi-Lopez), alla fine lo sciagurato beve –, cascate di aggettivi e di dettagli inutili, e l’assoluta mancanza di credibilità dei personaggi, per trovare un traffico di bambini, che ricorda quello imbastito da Alberto Sordi ne “Il giudizio universale”, ma con una trama flebile, molto risibile, e tanto vento.

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Marco Ciriello

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