il Ritratto. Bernardo Bertolucci, regista rosso baciato dalla censura dell’Ultimo Tango

Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci fin da bambino era molto intelligente. Però, a fargli capire come va il mondo, a lui figlio di possidenti, furono i figli illetterati dei contadini. Si trovava in campagna con loro e passò un furgoncino con l’altoparlante, che invitava allo sciopero generale, per la morte di un dimostrante durante uno scontro con la Celere. Il piccolo Bernardo chiese a un’amichetta, figlia di mezzadri, chi fosse morto. La ragazzina gli rispose “un comunista” e gli assicurò che se ci fosse stata la rivoluzione avrebbero appeso tutti i padroni ai rami degli alberi. “Anch’io, allora?” domandò Bernardo. “No – fu la risposta. – Tu ti salvi perché sei comunista”.

Probabilmente il futuro regista non sapeva che cosa volesse dire essere comunista. Ma quella risposta gli fece capire come andavano le cose in Italia. A dirsi comunista non rischiava che qualche manganellata: la Celere infieriva sui braccianti, non sui figli dei padroni, come denunciò nel ’68 Pasolini. E in più quella professione di fede gli avrebbe garantito, in caso di vittoria della rivoluzione proletaria, quanto meno l’impunità.

Alla rivoluzione, beninteso, Bertolucci ci credette davvero, e d’altra parte l’adesione al comunismo, insieme a un innegabile talento personale e ad ottime relazioni familiari, gli assicurò una carriera brillante e precoce, di enfant gâté e terrible della cinematografia italiana. Premio Viareggio a ventun anni con la sua prima raccolta, sull’onda del padre poeta, approdò giovanissimo alla regia, grazie all’amicizia di Pasolini, suo vicino di casa. Le sue prime pellicole furono autoreferenziali e noiose. Le sue prime interviste in cui dichiarava, fra lo svagato e l’albagioso, di non pensare al pubblico quando girava i suoi film, sono emblematiche di un’arroganza intellettuale non comune nemmeno fra gli intellettuali di sinistra degli anni sessanta. La sua convinzione che fare un cinema popolare fosse possibile solo nei Paesi socialisti (leggi: i regimi del patto di Varsavia o la Cina di Mao) è indice di un’inossidabile fede del comunismo, anche se può essere letta come alibi per la scarsa comunicativa delle sue pellicole.

Al successo, Bertolucci arrivò grazie agli scrupoli di un magistrato moralista, che sequestrò per oltraggio al pudore il suo “Ultimo tango a Parigi”, pellicola ripetitiva cui il procedimento giudiziario conclusosi col rogo dell’originale conferì un immeritato fascino sulfureo. Oltre tutto, la famosa scena del burro, che contribuì alla fortuna del film, fu girata a sorpresa, con scarso rispetto, quanto meno, della poco più che maggiorenne Maria Schneider. Forse la sodomizzazione (così dichiarò il regista) era nel copione, ma tutto avvenne all’improvviso, per assicurare ai fotogrammi una maggiore autenticità. L’attrice, morta a 58 anni, non perdonò mai Bertolucci, ma è triste osservare come nell’era di me-too ben pochi abbiano ricordato questo episodio che avrebbe potuto incrinare l’unanimismo delle celebrazioni del grande regista. Nella fattoria cinematografica degli animali non tutti i sederi sono uguali…

Sull’onda del successo, Bertolucci ottenne i finanziamenti per fare brutti film – dallo squallido “La tragedia di un uomo ridicolo” all’“Assedio”, un ultimo tango multirazziale e senza il burro – ma anche autentici capolavori, come “L’ultimo imperatore”. Si potrebbe obiettare che è facile fare dei bei film con uno straordinario direttore della fotografia, un cast d’eccezione, mezzi hollywoodiani; è vero, ma fino a un certo punto: c’è chi è stato capace di sperperare queste e altre risorse realizzando autentici flop. 

È difficile invece collocare fra i capolavori anche “Novecento”, in cui si esprime tutta quella impostazione ideologica e pedagogica che ha caratterizzato la cinematografia del Maestro. Era il 1976, l’anno del tentato “sorpasso” da parte del Pci, e Bertolucci voleva fornire, con questa pellicola destinata a celebrare le lotte della classe operaia fino al 25 aprile 1945, un’implicita risposta al Pasolini degli Scritti corsari, secondo il quale televisione e consumismo avevano omologato il mondo contadino, uccidendone “l’innocenza”. Ma il regista, che aveva in tasca la tessera del Pci, compì un passo falso: con lo zelo del primo della classe concluse la pellicola con un processo popolare intentato dai contadini all’odiato “padrone”. Pajetta, all’anteprima, condannò furibondo quella scena, giudicandola un falso storico: era il tempo della solidarietà nazionale in cui il partito comunista cercava i consensi della borghesia benpensante. Soltanto alcuni “figiciotti” di belle speranze e di buone letture come Walter Veltroni difesero all’interno del Pci la pellicola e Bertolucci. Surtout, pas trop de zèle, pare che raccomandasse Talleyrand ai suoi ambasciatori. 

Per il regista giunto al successo  «per via casearia » fu un duro colpo. La tessera del Pci si sbiadì nelle sue tasche, anche se non venne mai meno la sua fede in una rivoluzione nella quale, in qualità di comunista, non avrebbe corso il rischio di finire impiccato al ramo di un albero. Mentre, se avesse resistito l’odiato capitalismo, Berlusconi avrebbe continuato a distribuire i suoi film.

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Enrico Nistri

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