Il caso. Perché non dimenticare le tragedie di Pamela e Desirée

Desirée e Pamela

Sull’omicidio brutale delle due ragazzine sta scendendo un silenzio inquietante. Dobbiamo invece ricordare, per capire noi e l’Italia di oggi. Distrutta dall’assenza della famiglia, della sacralità del corpo e della sua storia.

La scorsa settimana “Lo sguardo selvatico” vi ha invitato a smetterla di correre non si sa bene dove e perché, e fermarvi un momento. Oggi, sento addirittura la necessità di uscire dall’istante e riandare un po’ indietro (solo di una manciata di settimane), per non dimenticare. Se non ricordiamo, infatti, non capiamo più dove siamo. È qualcosa di prezioso e terribile, appena accaduto e che mi sembra si voglia frettolosamente dimenticare: Pamela e Desirée, le due ragazzine massacrate di droga e di sesso, ridotte prima a cose, e poi a spazzatura.
Non voglio fare retorica e alimentare odi. Sento però il bisogno di restare loro accanto, almeno nel ricordo, mentre è evidente la pressione, forse anche la tentazione di buttarle via. Sarebbe facile ma, credo, diventeremmo all’istante spazzatura, anche noi. Perché usciremmo dall’umanità diventando cose, come hanno cercato di fare diventare loro.
Come tirarle fuori, però, dalle immagini ambigue delle cronache, tra le valige in cui i neri cercavano di fare entrare i resti spezzati di Pamela e il container “controllato dal marocchino” a Roma- San Lorenzo, con Desirée e gli altri? Che fare di queste figlie-sorelle di tutti noi ormai scivolate allo status incerto tra cosa, rifiuto, resto umano? Ex bimbe, rimaste nelle immagini imbarazzanti di internet, tra il seduttivo e l’imbronciato: tremendamente infelici. Non  possiamo lasciarle lì. Per loro, perché l’anima esiste e va accompagnata, ripulita, onorata; tanto più quanto ne è stata sporcata l’esistenza. Ma anche per noi, perché la loro anima è un aspetto della nostra. La psiche è solo in
parte individuale; si sa da sempre che decisivo è l’aspetto collettivo. Soprattutto in società molto collettivizzate, come la nostra. Non ho forse mai letto di due persone così maltrattate e abbandonate nella morte. Anche le tribù più severe e crudeli in giro per il mondo rispettano e danno un senso alla morte e al cadavere; nell’interesse di chi non c’è più, ma anche di chi rimane e del gruppo cui apparteneva. Il silenzio, il ridurre tutto
all’inchiesta giudiziaria (di cui non stiamo neppure a parlare, per non aggiungere orrore a orrore: basta il linguaggio dei comunicati per fare capire cosa sia e dove vada). Quando non viene onorata la fine della vita, condivisa la sofferenza per la morte e la violenza, si è nella barbarie.

Impossibile “elaborare il dolore nel silenzio” come sembra che abbia chiesto alla famiglia monsignor Nazzareno Marconi, vescovo di Macerata. Perché le patologie di cui Pamela e Desirée hanno sofferto fino alla tortura e alla morte non erano private, ma sociali. Non se le sono inventate loro ma sono state loro trasmesse dalla società in cui sono cresciute e vissute: la nostra, di cui noi siamo parte attiva. Non possiamo rimandare tutto ai problemi delle loro famiglie come ha infelicemente fatto qualche opinionista di fama, a parole antirazzista. Quella è al massimo, l’altra faccia, superficiale, della realtà cui tutti apparteniamo. Pamela e Desirée sono le nostre sorelle, figlie, nipoti. E sono vittime, che hanno pagato con la tortura e la vita. Se non le tiriamo fuori dal niente dove le si vuole rinchiudere (la condizione nella quale finiscono le persone “reificate”, ridotte a cose, studiate da Joseph Gabel, e tanti altri) diventano anche nostre vittime. E finiamo nel niente anche noi. Il primo problema sociale, psicologico e esistenziale, che ha segnato queste due ragazze, è l’assenza del padre. Gianluca, padre di Pamela, si era separato dalla moglie quando lei aveva due anni; Stefano, padre di Desirée era il padre naturale. Rapporti fantasmatici, ma forse anche per questo fortissimi, annotati sui diari delle due ragazzine, per le quali pranzare con  entrambi i genitori era un avvenimento atteso e importante. L’assenza del padre rende difficile costruirsi un ordine, accettare la norma, valorizzare il limite, il confine, condizione della propria realizzazione (le statistiche ce lo ricordano, spietatamente). Il padre assente è il primo dolore. Che non è, però, solo loro, privato: è un dolore e una responsabilità sociale.
L’Italia (come ricordo sempre) è il paese europeo che meno ha fatto per garantire la presenza paterna dopo il divorzio. Le leggi sull’affido dei figli condiviso tra i genitori sono arrivate qui dieci anni dopo gli altri paesi europei e hanno sostanzialmente fatto fuori i padri, facendoli sparire dietro l’assegno mensile e il bancomat. Ora ne è stata proposta una dal senatore Pillon, finalmente di livello internazionale, che recepisce le raccomandazioni del Consiglio d’Europa sulla delicata materia e assicura a ogni figlio la presenza materna e paterna dopo il divorzio; ma è in difficoltà perché non è nell’interesse e nello stile dei gruppi di potere che hanno campato finora sulla questione. La nostra è una società che fabbrica “figli di mamma” e chi non ci sta dentro e non lo accetta, può stare molto male.
Come Pamela, come Desirée: quello dell’assenza paterna è stato il primo dolore. Che si cerca di coprire con la dipendenza da qualcosa o qualcuno. Come scriveva con precisione Pamela sul suo diario: “Dipendiamo da qualcosa che ci fa dimenticare il dolore”. Quel qualcosa è spesso la droga. E questa è la seconda tragedia, sociale, pubblica, italiana, che ha travolto la vita delle due ragazze e intossicato l’anima dell’Italia. Perché è dalla droga che diventano nei tre quarti del casi dipendenti i giovani che cercano di coprire il dolore per il padre che non c’è, o non abbastanza. Anche per questo l’Italia è in testa fra i paesi europei nel consumo di sostanze (seconda per cannabis e quarta per cocaina). Come La Verità ha documentato ne Lo sguardo selvatico, il governo Renzi (sottosegretaria Maria Elena Boschi) è arrivato addirittura a licenziare il Direttore del dipartimento per le droghe, il professor Serpelloni, esperto internazionalmente riconosciuto (che ha poi fatto causa, vincendola), lasciando il campo completamente sguarnito per  lungo tempo, come segnalato dalle Associazioni del settore, mentre il paese diventava più che mai terra di conquista per ogni traffico. Quando però “dipendi” da una sostanza perdi la libertà. La padrona diventa lei, che ti tratta come una cosa. Ti sottometti. Quel che è peggio: vuoi sottometterti. Perché sei già all’inferno, e vuoi farla finita. Cerchi il carnefice, qualcuno che prenda il tuo corpo e ne faccia tutto ciò che vuole, fino alla fine. E qui compare l’ultima grande tragedia dell’Italia di oggi (speriamo di ieri, ma non è del tutto certo, urta troppi interessi): l’immigrazione incontrollata, i barconi umanitari-mafiosi-mortiferi, con il loro carico “fosco e innocente” insieme, come scriveva Pasolini in una profetica sceneggiatura africana (Il padre selvaggio, Einaudi editore), scritta poco prima di essere ucciso. È dall'”orrore dei massacri”, dai corpi mutilati con “foschi occhi buoni” in antichi riti crudeli, gli arti nascosti “in assurdi, sordidi fagotti” in quest’Africa devastata dalle avidità post coloniali, perfettamente descritti dal nostro poeta e testimone del suo tempo, che sono usciti i massacratori finali di Pamela e Desirée. A loro volta sottomessi nella loro erranza non sappiamo bene a chi, e non certo in un disegno di riscatto. Al riscatto dobbiamo invece pensare ora noi per onorare le nostre due vittime (ma ce ne sono molte altre, straziate, anche se non assunte a cronache così precise e diffuse). Occorre prenderci le responsabilità di queste morti della giovane anima di quest’Italia devastata dallo sviluppo selvaggio e dalla perdita dei riferimenti naturali: la famiglia, la sacralità del corpo, della terra e della sua storia. Dobbiamo farlo, o finiremo
inceneriti dalla storia.

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Claudio Risè

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