Cultura (di P. Isotta). Così il bimillenario di Ovidio ha riscattato l’orgoglio dell’Italia

Si disputa se il bimillenario di Ovidio cada nel 2017 o nel 2018.  Il Poeta, sessantenne, solo, dimenticato, morì in una Dacia, forse meno gelida ch’egli non dica, sulle rive del Mar Nero, crudelmente relegato (non esiliato, che sarebbe stata pena superiore) da Ottaviano nell’8 p. Ch. Il motivo di questa pena così terribile non si è compreso fino in fondo, e il primo a non comprenderla fu il Poeta. Francesca Ghedini, nel bellissimo e appena uscito Il poeta del mito. Ovidio e il suo tempo (Carocci, pp. 352, euro 29), offre una fittissima ricostruzione storica del rapporto tra il Poeta e un intero ambiente politicamente dissidente, che il Principe a poco a poco eliminò, sin dalle due Giulie, la maior, figlia, e la minor, nipote. Ma credo vi sia stato un più profondo concorso di cause. Augusto era un genio politico al quale pochi possono esser accostati. Per fondare l’Impero, una ineluttabilità storica già palese nell’opera di Silla e di Cesare, volle tentar di restaurare costumi e istituzioni, anche religiose, della prisca Repubblica, il mos maiorum. Un poeta che nelle Metamorfosi parla dell’eternità della materia, canta che nulla si crea e nulla si distrugge e tutto solo perpetuamente muta, non poteva trovar posto in una società di atei che dovevano finger di credere agli Dei. Nella cornice filosofica del poema, il Primo e il Quindicesimo Libro, Ovidio lo afferma pur egli, cantando la divinità di Augusto. Non ingannò l’intelligenza del Principe né quella del successore, il grande e ancor incompreso Tiberio.

Per me il bimillenario cadeva l’anno scorso. Come quello di Tito Livio, parimenti – e definitivamente – ignorato. E, al suo inizio, incominciai a preoccuparmi e indignarmi. Non vedevo all’orizzonte nulla per celebrare uno dei più grandi Poeti nostri, e soprattutto il Poeta che, più di ogni altro, ha avuto influenza sulle arti della figura, sulla poesia, sulla stessa musica. Non è questione di grandezza: certo nessuno sosterrà che Ovidio può paragonarsi a Omero, Lucrezio, Virgilio, i più grandi poeti mai vissuti. È questione d’influenza sull’immaginativa artistica: la vera Bibbia mitica delle Metamorfosi e dei Fasti è un’inesauribile sorgente d’ispirazione per pittori, scultori, creatori di gioielli e pietre dure, infine poeti per musica e compositori, soprattutto dal Rinascimento a oggi. La mia preoccupazione, la mia indignazione, scaturivano dal fatto che una Nazione, un popolo, che ignorano le proprie radici, non hanno presente né futuro, sono fatti di sudditi, non di cittadini. Ciò è vero in assoluto, sebbene il caso di Ovidio si prospetti confortante in extremis. Ed è quasi un miracolo.

Siamo alla fine del 2018: il mio pessimismo si tramuta in orgoglio di italiano. Ad aprile uno dei più grandi storici della letteratura, Antonio La Penna, ha pubblicato per le edizioni della “Normale” di Pisa un sontuoso profilo del Poeta, Ovidio. Relativismo dei valori e innovazione delle forme (pp. 432, euro 40), che mette il punto fermo sulla ricostruzione e sull’interpretazione della sua arte. La Penna l’ha scritto a novantadue anni, e con una limpidezza stilistica e una chiarezza di visione che rendono l’opera sua un’aquila volante ben più in alto delle pagine dei più celebrati scrittori stranieri, come il Segal, e rendono irrimediabilmente invecchiate le sottovalutazioni del Poeta di Luigi Castiglioni ed Ettore Paratore.

Ma c’è la mostra su Ovidio allestita alle Scuderie del Quirinale che, con la forza dell’immagine, è la più potente rivendicazione del Poeta fatta dalla sua Patria. Una mostra che per la ricchezza, la complessità insieme e la capacità persuasiva e suggestiva delle opere raccolte con un lavoro di tre anni, resterà indimenticata per sempre. S’è inaugurata a ottobre e resterà aperta fino a gennaio. Sta avendo gran successo; ma le opera raccolte dovranno tornare alle rispettive sedi, essendo state prestate; per fortuna un catalogo, edito da “arte-m”, è accessibile a chiunque per avventura non possa visitarla. L’équipe responsabile del lavoro, che ha collaborato con Matteo Lafranconi, il direttore delle Scuderie, è guidata da Francesca Ghedini, l’archeologa – ma, come prova il libro or citato, anche filologa – padovana, che ha mostrato inalterabili pazienza organizzativa e genialità nella cernita delle opere ostese.

Sarebbe stucchevole un tentativo di descrizione di quel che l’immensa silloge contiene. Si passa di meraviglia in meraviglia. Gioielli, pietre dure, affreschi, sculture: antichi, e solo in parte ispirati a Ovidio, perché sovente ispirati agli stessi miti ai quali la sua poesia dà veste definitiva – insieme con quella di Nonno di Panopoli, che nel Quinto secolo p. Ch., fingendosi cristiano e facendosi nominare persino vescovo, compone Le Dionisache, in quarantotto Libri, equivalente greco tardoantico delle Metamorfosi e dei Fasti e ultima, romanticamente appassionata, rievocazione del paganesimo. Poi c’è la miniatura, dal Medio Evo in poi. Il più antico codice delle Metamorfosi, napoletano – s’immagini il mio orgoglio! –   del secolo XI, è fra le gemme della raccolta. Indi quadri e scultura dal Rinascimento in poi che sono a loro volta un’enciclopedia mitica ispirata alla bellezza così ricca e inesauribile che nel mare delle sale ti sembra di naufragare. Due quadri vorrei ricordare in particolare. Uno strazio di Venere sulla morte di Adone, che strapperebbe le lagrime a un sasso, di Giuseppe Ribera. Il sommo pittore fu attivo a Napoli, ove ha lasciato opere nelle quali le figure, ispirate allo stile di Caravaggio, sembrano drammaticamente scaturire dall’ombra. Questo è un Ribera diverso, “chiarista”, ove la linea è in mirabile equilibrio con il colore. Come se si ispirasse alla parte “classica” dello stile di Guido Reni, che nessuno potrebbe considerare a Caravaggio inferiore.

Poi c’è un fin qui ignotissimo ritratto (immaginario) di Ovidio dipinto dal sottovalutato e grande ferrarese Giovan Battista Benvenuti detto “l’Ortolano”, e risalente all’inizio del Cinquecento. Effigiato è un saggio barbuto, lo sguardo assorto, severo, lontano, la penna in mano, con una sorta di turbante-corona non dovuto a un’orientalizzazione della figura ma alla natura di vate, ossia di poeta profetico, che il pittore a Ovidio attribuisce assimilandolo a Virgilio. E come ha fatto la Ghedini a identificare il personaggio effigiato? Nel margine destro, là ove l’artista medioevale e rinascimentale suole collocare il paesaggio – ricordate quelle distanti montagne affatto indifferenti a martirii e crocifissioni? – si vede un lago nel quale due uomini entrano all’atto stesso che stanno trasformandosi in rane. Una donna con due piccoli tenuti per mano assiste alla metamorfosi, L’ha voluta lei. È Latona, che punisce i crudeli contadini della Licia che a lei e ai bimbi Apollo e Diana hanno negato di placar la sete. Sesto libro delle Metamorfosi; e anche oggetto della Quinta delle dodici Sinfonie del Maestro viennese del Settecento Dittersdorf sulle Metamorfosi di Ovidio – onde anche il mio libro su Ovidio e la musica intitolato La dotta lira occupa uno strapuntino nella trionfale rivendicazione ovidiana del 2018.

Noi italiani siamo rosi da due tabe: l’invidia reciproca e l’odio verso noi stessi. Quando le vinciamo, siamo i primi del mondo. La mostra delle Scuderie ne è mirabile prova.

*Da Libero Quotidiano del 25.11.2018

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Paolo Isotta*

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