Focus. 4 novembre 1918: elogio dell’eroismo cento anni dopo

Sono passati cento anni, fra pochi giorni. Da ricordare con deferenza, senza sentimentalismi melensi, pacifismi d’accatto, ciarpame politically correct. E neppure stonate fanfare. Mi sia consentito offrire alla meditazione del lettore qualche personale considerazione.

L’altra sera guardavo per TV un film di Ermanno Olmi che mi era sfuggito – vivendo prevalentemente all’estero – al momento del suo lancio: “Torneranno i prati” del 2014, l’ultimo scritto e diretto da Olmi, poi scomparso nel 2018 a 86 anni. In concomitanza con le celebrazioni dell’inizio della Prima guerra mondiale, Olmi decise di realizzare un film ambientato nelle trincee sull’Altopiano di Asiago, teatro di cruente battaglie e località ove il regista viveva. Il film si svolge durante la notte sul fronte Nord-Est, dopo i sanguinosi scontri del 1917. La vita dei soldati si snoda in un bianco sceneario di neve, tra lunghe, interminabili attese, ore angoscianti che accentuano la paura, ed improvvisi accadimenti. La pace della montagna diventa un luogo dove si muore, un inferno quotidiano. Il film è stato proiettato la prima volta a Roma il 4 novembre 2014, alla presenza del Presidente della Repubblica e delle più alte autorità dello Stato, ed in concomitanza in cento Paesi nel mondo. “L’evento speciale prevede un’unica proiezione organizzata dalle Ambasciate, dai Consolati e dagli Istituti di Cultura italiani e interesserà, con la collaborazione del Ministero della Difesa, anche i contingenti di pace italiani in Afghanistan, Kosovo e Libano”, recitava il comunicato-stampa, aggiungendo:

 “Per motivi di salute Ermanno Olmi non è presente alla conferenza stampa di Roma. In un videomessaggio da Milano, dov’è ricoverato, il Maestro dice: ‘Noi abbiamo compiuto un grande tradimento nei confronti di quei giovani, milioni di civili, morti in quella guerra. Non abbiamo spiegato loro perché sono morti. Con loro non si può barare. Li abbiamo traditi (…). Mi auguro che questa celebrazione del Centenario con alcune riflessioni sul tradimento trovi in noi un motivo per chiedere scusa. Ai giovani veniva detto di mostrare l’amor patrio e quei ragazzi ci avevano creduto. Sono stati inutilmente sacrificati all’arroganza dei potenti. Ogni guerra nasce sempre per il potere e la ricchezza di pochi. Oggi l’idea di patria si è disciolta, l’amor patrio non esiste più, però quei ragazzi ci avevano creduto. Ma era una grande bugia, una grande truffa’ ”.

Mi sono ricordato di aver letto, anni fa, in questo magazine, alcune riflessioni al riguardo di Mario Vattani e me le sono andate a rivedere:

“Caro Olmi, il 4 novembre si celebra l’eroismo non il tradimento – scriveva Vattani – di tutte queste chiacchiere, l’unico elemento d’interesse è il paradossale appello a una riflessione sul tradimento. Lo raccolgo malvolentieri, pensando al tradimento che queste parole rappresentano verso le speranze, gli atti di eroismo, gli ideali per i quali sono morti tanti giovani italiani, e che si celebrano oggi. Secondo quanto spiega in un’intervista il regista Olmi, queste cose gliele ha raccontate suo padre. Il fratello di mio nonno, Aspirante Ufficiale Umberto Vattani – Medaglia d’Argento al Valor Militare – non mi ha potuto raccontare nulla, perché è morto sul fronte a diciannove anni. Ma io stranamente, certe cose le ho capite lo stesso. E allora per quanto mi riguarda, oggi preferisco sentire parlare quel giovane, il cui sangue è simile al mio, e si è espresso con le sue azioni, invece che con le chiacchiere (…). ‘Aspirante ufficiale del 59°reggimento fanteria. Si mantenne col proprio plotone sulle posizioni assegnategli, con mirabile esempio di ardimento e sprezzo del pericolo resistette ostinatamente ai furiosi attacchi nemici ed incitò all’estrema resistenza i pochi superstiti. Cadde colpito a morte in una lotta corpo a corpo’ ”.

Ora, come quattro anni fa, son d’accordo con Vattani contro la retorica pacifista di Olmi, pur apprezzabile regista di pellicole come “Il mestiere delle armi”, un cristiano di sinistra autore di una operazione culturale e rievocativa di segno, si sarebbe detto in altri tempi, “disfattista”, non solo “pacifista”: opera benedetta, ufficializzata dallo Stato  e diffusa ai massimi livelli; decisione sicuramente inimmaginabile in altre Nazioni, dalla Francia agli Stati Uniti, la cui poderosa industria cinematografica continua, anzi, a mostrarci, come un mantra ossessivo, non le miserie delle loro guerre vinte, no: sempre suona la grancassa dell’ “Arsenale della Democrazia”, la libertà donata al mondo, dovere supremo di tanti “soldato Ryan”, come nella propaganda dello Zio Sam di 75 anni prima… 

Soldati italiani nella Prima Guerra Mondiale

Qualcosa, finalmente, sembra però mutare. È di pochi giorni fa l’approvazione, in Parlamento, della mozione di ‘Fratelli d’italia’ sulle celebrazioni del centenario della vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale, il prossimo 4 novembre, come ha scritto una raggiante Giorgia Meloni, leader del partito. Spero che la lotta politica non infanghi nuovamente la data, che le celebrazioni siano vere, non riedizioni di scialbi convegni, annacquate dal pacifismo Si può morire in guerre poco sensate, come lo fu per noi la WWI. Credere in ideali generosi, seppur fragili. Ciò nulla toglie alla grandezza della partecipazione, anche quando anonima, la dedizione alla terra, al sangue, al destino comune, alla Heimat più che alla Vaterland (per usare diffusi termini tedeschi), i doveri di mazziniana memoria, l’obbedienza alle autorità legittime, il coraggio, la difesa dei propri valori, sino alle conseguenze estreme. 

Con Mario Vattani, più giovane di me di 17 anni, abbiamo condiviso quasi due decenni servendo la stessa Casa, la Farnesina, forse senza mai incrociarci personalmente, pur conoscendo io suo padre, suo zio, suo fratello, anche loro appartenenti alla Casa, prestando noi servizio in Paesi lontanissimi tra di loro, dagli Stati Uniti all’Egitto, all’amato Giappone per lui, cinque diversi Paesi dell’America Latina per me. Eppur accomunati, ipotizzai poi, da sentimenti similari verso la storia comune ed il nostro Paese, dalla fedeltà non tanto a governi, spesso di dubbia composizione o credibilità, ma a quell’idea antica e sempre nuova d’Italia, di patria per lo più dolente, ma viva, che non ha colore, che non conosce partigianerie e fazioni, chiesuole, sette, esterofilie estemporanee, buffonate nei palazzi del potere o il piacere masochistico dell’autoflagellazione continua, bensì doveri, dignità, sacrifici se necessario.

Appartengo ad una generazione che vide, conobbe, ascoltò la voce dei combattenti sessantenni della Grande Guerra. Anch’io, come Vattani, persi un fratello di mio nonno, Giuseppe Marocco, ferito gravemente in combattimento, trasferito dopo un paio di mesi circa all’Ospedale San Giovanni di Torino ed ivi deceduto, due settimane dopo il 4 novembre. Senza medaglie e neppure iscritto nella lunga lista dei caduti nella piazza del paesino locale, Valfenera d’Asti. Forse una circolare limitò gli elenchi ai morti durante il periodo del conflitto, non un giorno di più…

Mi ricordo di aver lì occhieggiato da bambino, di straforo, la cena dei combattenti e reduci, nell’Albergo dei miei cugini, la vigilia della ‘Festa della Vittoria’. Un rancio semplice, ma poco austero, solo per uomini, consumato su lunghe tavolate, con molto vino a portata di mano. Alcuni avevano lasciato una parte del corpo fuori le trincee, in lotte furibonde, dove l’alternativa consisteva nel correre verso le mitragliatrici austriache o indietreggiare, ma i R.Carabinieri avevano l’ordine di sparare contro di loro… Un cugino di mio nonno aveva perso un  occhio; un altro un braccio. Diceva: “Le guerre è sempre meglio non farle, ma se si fanno bisogna vincerle!”

Durante la cena i reduci cantavano vecchie canzoni di quel lontano tempo di guerra, tristi, piene di nostalgia per la mamma, la fidanzata, persone e luoghi cari, senza odio. Anni prima, quando i reduci erano più giovani, sentivo raccontare che a volte si scatenavano delle piccole risse, che iniziavano con allusioni maliziose, talora passavano agli insulti ed ai pugni, perchè alcuni, specialmente gli Arditi (un paio avevano poi trascorso vari anni nella Legione Straniera), argomentavano di essere stati più valorosi di altri, che addirittura avevano tirato il fucile dopo la rotta di Caporetto o erano stati fatti prigionieri. Rancori sordi che la guerra civile tra il 1943 ed il ’45 aveva attizzato. Ma allora, ai miei occhi infantili e curiosi, tutto sembrava armonico; gli uomini se ne stavano in pace, ricordando la gioventù, l’amicizia, e le loro voci suonavano un po’ stonate per l’età ed il vino. 

E mi ricordo, quando avevo poco più di vent’anni, che morì una sorella di mio padre, senza figli. Non mi lasciò alcuna eredità, ma alcuni oggetti, tra i quali una vecchia scatola di biscotti dalla quale riemersero delle carte, qualche fotografía, medaglie e Croci di Guerra – credo del suo secondo marito, un ufficiale della R. Marina sopravvissuto, dopo essere stato in acqua per 24 ore aggrappato ad una tavola, al naufragio dell’incrociatore “Garibaldi”,  affondato  il 18 luglio 1915 da un sommergibile austriaco U-4, presso la costa dalmata, mentre bombardava la ferrovia Ragusa-Cattaro – una Eisernes Kreuz tedesca del 1939, concessa forse a suo cognato, Capo di Gabinetto di De Vecchi, Governatore del Dodecanneso e poi generale, un distintivo d’argento a scudo dell’Associazione Nazionale Mutilati Invalidi di Guerra, con tre baionette ed una croce di spine, la classica “cimice” smaltata del P.N.F., un pacco di vecchie lettere, un volume rilegato di liriche scritte del primo marito, Ivo**, conosciuto a 14 anni, d’ispirazione crepuscolare, “Il Cuore di Allora”; una sua tessera dell’Opera Nazionale Dopolavoro, un’altra d’iscrizione alla Confederazione Nazionale dei Sindacati Fascisti, con su tratteggiata la sede del piacentiniano Palazzo delle Corporazioni, in Via Veneto a Roma. Pure un santino lutto pieghevole ed un opuscoletto a stampa, sgualcito e mezzo bruciacchiato, “Dieci mesi di prigionia in Austria “. Reduce che in qualche momento si sarà probabilmente sentito dimenticato, credo mai tradito.

Sono riuscito a ritrovare, in uno scaffale, quel santino, con il viso d’un uomo giovane, bruno, con molti capelli, nato nel 1897 e deceduto il 19 luglio 1939, Grande Invalido di Guerra: mi pare quanto mai rappresentativo di un’epoca, dei suoi valori. Non lo ricordavo bene:

“Ivo, Ivo Mio/ Tanto Caro e Amato/ in Quanto affanno e Dolore/ Lasci/ La Tua Sposa/ Mi restano/ Le Fiorite Immagini/ Della tua/ Delicata Soave Poesia/ Perenne Primavera/ Segno e Ricordo/ Del Tuo/ grande Cuore/ Alla Patria/ Sui campi di Battaglia/ Amara Ardente Ferita/ in Olocausto Offriva/ Giovinetto Appena/ Sanguinando/ Tutta La Vita/ Amando Sognando Soffrendo/ Tutto donando Visse/ Gli Eroici Camerati/ Caduti/ Da oltre Venti Anni/ Raggiungendo”.

Interessante “Dieci mesi di prigionia in Austria. Racconto di un reduce”, l’opuscoletto pubblicato dal Comando I Armata, Ufficio di Collegamento con le prime linee, nell’estate 1918, diffuso con una chiara finalità propagandistica tra le truppe. Si legge a proposito dell’autore, al di sopra di una parte strappata della pagina iniziale, “Ivo **, domiciliato a Torino, Via Carrozzai n. 6 – (l’odierna Via Andrea Doria, in centro, dove l’edificio esiste tuttora) – soldato del 247mo fanteria, 5ta compagnia, già prigioniero in Austria, rimpatriato il 25 Marzo 1918”.

Il 247° Reggimento Fanteria “Girgenti”, facente parte della Brigata Aosta, venne costituito nel gennaio del 1917 e sciolto alla fine del medesimo anno. Lo scenario generale è quello dell’ “Undicesima Battaglia dell’Isonzo”, combattuta dal 17 al 31 agosto 1917. Luigi Cadorna aveva concentrato tre quarti delle sue truppe presso il fiume Isonzo: 600 battaglioni (52 divisioni) con 5.200 pezzi d’artiglieria. L’attacco venne sferrato su un fronte che si estendeva da Tolmino fino al mare Adriatico. Dopo un combattimento aspro e sanguinoso, la Seconda Armata italiana fece indietreggiare gli austro-ungarici, conquistando la Bainsizza ed il Monte Santo. Altre postazioni furono occupate dalla Terza Armata del Duca d’Aosta. Il Monte San Gabriele ed il Monte Hermada si rivelarono inespugnabili, e l’offensiva si arrestò.  Come tutte le precedenti, del resto.

 Inizio, dopo molti anni dalla prima lettura,  a scorrere le pagine dello zio Ivo, datate 25 aprile 1918, dopo lo scambio di prigionieri ed il rientro in patria, indirizzate ad un collega della banca dove lavorava:

“…per sette mesi fu lo stesso che essere sepolto vivo, affamato, carico d’insetti e maltrattato. Quando ero in Austria e seppi della nostra sventura di Caporetto, avevo sempre paura di vederlo arrivare fra i prigionieri, perché la prigionia è una morte lenta, giorno per giorno, ora per ora…i nostri nemici se fossero civili, come pretendono di essere, non avrebbero fatto morire di fame, freddo e nel sudiciume tante migliaia di giovani che il destino non aveva voluto morti sui campi di battaglia”.

Durante il conflitto gli austriaci aprirono un campo di concentramento per prigionieri di guerra ad est di Mauthausen, nell’Austria Superiore, a 25 chilometri da Linz, per lo sfruttamento della cava di Wiener-Graben, un granito usato per pavimentare le strade di Vienna. Lì, russi, serbi, italiani raggiunsero la cifra di 40.000 internati e circa 9.000 di loro vi persero la vita, tra i quali 1.759 militari italiani. Gli stenti, la fame, il freddo e le malattie (prima fra tutte la tubercolosi) furono le principali cause del gran numero di decessi.  

Prosegue il racconto dello zio Ivo:

“Io venni fatto prigioniero in un combattimento la mattina del 19 agosto (era domenica) mentre  si avanzava sul Kobileck, una collina che come lei saprà si trova al di là del M. Vodice, a sinistra del Santo. Alle due del mattino, venne l’ordine di uscire dalla galleria e col fucile carico, baionetta in canna, e l’animo trepidante nell’attesa, attendemmo nei camminamenti l’ordine dell’attacco, che venne dato alle 4 del mattino. Dopo vivissima lotta, con attacchi e contrattacchi, riuscimmo verso le 6 a essere padroni del posto e pensammo a rafforzarci sulla posizione occupata ed attendemmo i rinforzi, che per le nostre perdite si rendevano necessari per poter continuare l’avanzata. Nella località ove io mi trovavo eravamo rimasti senza ufficiali e il comando dei pochi rimasti era stato preso da un sergente di una sezione mitraglieri. Verso le 9, cioè tre ore dopo che eravamo riusciti ad occupare la posizione, vedemmo avanzarsi in fondo alla valle, alla nostra destra, dal lato del Santo, un centinaio di soldati, che non riuscimmo a distinguere per il fumo dei proiettili, se erano italiani o nemici. Sospendemmo di far fuoco… Quando riconoscemmo dal segnale d’attacco che erano austriaci era troppo tardi e dopo breve lotta fummo sopraffatti dal numero. Tentai di tornare indietro, ma si era circondati. Un particolare: la maggior parte dei nemici che mi fecero prigioniero aveva l’elmetto italiano. Appena nelle retrovie nemiche, quando ancora si era sotto il tiro delle artiglierie, non ci maltrattarono, specie i feriti, ma quando si fu un po’ avanti incominciò la nostra ‘Via Crucis’. Si camminò per tre giorni senza veder pane e solo alla sera del terzo giorno riuscimmo ad avere mezza pagnotta; per la strada si soffrì pure la sete (era d’agosto) perché non ci lasciavano bere alle fontane e chi tentava di bere era ricacciato a calciate di fucile. Da Lubiana, ove fummo concentrati, invece di essere inviati al campo di concentramento di Mathausen, come di consueto avveniva, fummo caricati sopra un treno merci e inviati a Belgrado, in Serbia. Per viaggio, quando il treno si fermava in aperta campagna, si tentava di tutto per impadronirsi di barbabietole e di pannocchie di grano turco per sfamarsi”.

Naturalmente, il peggio doveva ancora presentarsi, nella capitale serba, che nell’ottobre  1915 era stata  conquistata da tedeschi ed austro-ungarici, al comando di von Mackensen:

“Arrivati finalmente a Belgrado, fummo divisi in gruppi di duecento per essere inviati ai lavori pesanti. Il rancio a Belgado era: la pagnotta di un chilo in quattro, acqua con un po’ di farina e zucca; alla sera acqua e farina…Io fui inviato a Sabac, a 80 Km. da Belgrado, con duecento altri miei compagni fra i quali erano camerieri, sarti, barbieri e contadini, e fummo destinati a portare  sacchi di grano, dai vagoni serbi a quelli ungheresi: come potrà capire, io non potevo, data la mia costituzione, adattarmi a un simile lavoro, tanto più che quando mi cadeva il sacco di grano a terra, il sergente austriaco, che ci sfruttava per conto del suo maledetto governo, mi bastonava, dicendomi che come italiano ero camorrista e speculante, cioè non volevo lavorare e solo mangiare. A nulla serviva protestare e per quelli che non si adattavano a quel lavoro erano ceffoni e bastonate!  Dopo qualche giorno, visto che non potevo variare lavoro, e tanto meno adattarmi alle legnate, decisi di fuggire con un mio amico di Pinerolo, certo Berutto, pure del mio reggimento. Nonostante l’assidua vigilanza di quei vecchioni che ci sorvegliavano e ci facevano lavorare, e per i quali gli italiani sono peggio degli animali da soma, riuscimmo a nasconderci e di notte ci allontanammo, vivendo con zucche, pomodori e prugne, ma purtroppo non riuscimmo nel nostro intento, che era quello di raggiungere le nostre linee in Macedonia, perché sprovvisti di mezzi, e una sera, mentre dormivo in un pollaio, fui arrestato e portato a Obrenovaz, a 25 Km. Da Belgrado. Qui mi fermai sette giorni in prigione, poi venni nuevamente inviato a Belgrado, da dove ero partito, e qui mi mandarono nuovamente ai lavori pesanti, per la città; un giorno ci facevano scaricare un vagone di carbone in tre, un’altra volta portare travi, pezzi di ferro, e potevo chiamarmi fortunato quando mi mandavano a fare il becchino nel cimitero o a scopare per le vie della Capitale serba. Visto che ero caduto dalla padella nella brace, tentai nuovamente di fuggire, col mio amico passammo il fiume Sava, che segna il confine tra la Serbia e l’Ungheria. Sapendo che una squadra di sei prigionieri con due sentinelle passava in barca il fiume tutti i giorni, per recarsi dall’altra parte a tagliare dei giunchi per fare cesti, riuscimmo a sostituire due prigionieri e un giorno, approfittando di un violento temporale, inosservati ci allontanammo di corsa e ci buttammo a terra, nascondendoci fra i cespugli e attendemmo la notte. Verso la mezzanotte passammo vicini alla stazione di Zeno, prima città ungherese che trovammo e decidemmo, per far più presto, di salire sopra un treno merci in partenza (…). Viaggiammo sino all’alba e scendemmo a Uivideck, sempre in Ungheria, dopo aver percorso più di 80 Km. Girammo nei dintorni della cittá (…) più tardi fummo scoperti e arrestati. Passai un’altra settimana di prigionia, poi venni inviato a Budapest. Arrivai nella Capitale ungherese il 29 ottobre, quando arrivarono le prime notizie della nostra disgraziata ritirata di Caporetto. Dapprima non volevo credere a tanta sventura, ma purtroppo era vero. All’indomani attraversai Vienna a piedi, tutta imbandierata, e di qui fui inviato a Mathausen, al Campo di Concentramento dei prigionieri italiani. Qui mi attedeva la fame e tanta ne avevo già sofferta per la Serbia e in Ungheria: pure qui sorpassò quanto era possibile immaginare”. 

Continua il racconto dello sventurato prigioniero:

“Il rancio che il Governo austriaco ci passava era il seguente: la pagnotta di circa un chilo in quattro persone, poi alla domenica, lunedì, martedì e venerdì, a pranzo: un’aringa cruda sottosale, oppure un pugno di pescetti crudi che in Italia i gatti, per quanto affamati, non avrebbero mangiato, ed un mescolo di brodo fatto con acqua, un po’ di sego e cipolle poche. Martedì, giovedì e sabato: pranzo, razione di carne di grammi 50 con un po’ di brodo (…). Alla sera cena: tutti i giorni da tre a sei spicchi di carote bianche o barbabietole o rape, con un  po’ d’acqua ricavata dalla cottura delle medesime… dal 20 dicembre alla fine di gennaio, cioè per quaranta giorni, il pane ci venne ridotto a poco più di cento grammi al giorno, cioè la pagnotta di circa un chilo in otto persone! Oltre a ciò si soffriva il freddo, perché a quelli che li avevano furono tolti i pastrani e le mantelline. Dormivamo sul legno, in baracche umide senza coperte, cariche e stracariche di pidocchi di tutte le qualità e razze; altro che in trincea! Ne avevamo fra le ciglia, nei baffi, barba e dappertutto e non si aveva nemmeno più l’energia di distruggerli! Di notte tra fame, freddo ed insetti non si dormiva più: si era ridotti a veri stracci umani, invocanti un po’ di pane, che i nostri aguzzini non ci davano”.

Zio Ivo sopravvisse per miracolo a quelle traversie, a quelle vicissitudini tremende, ma irrimediabilmente malato di tubercolosi.  A Torino gli verrà asportato un polmone. Un soldatino che era pronto a morire, ma che era caduto prigioniero, a diciannove anni, di un nemico già alla fame, che ci considerava traditori, che ci odiava, nel mezzo di una lotta spietata:

“Si moriva giorno per giorno e la morte ci arrivava addosso poco alla volta, e colpiva a caso fra noi. Quanti miei compagni sono morti nelle luride baracche, mentre tentavano di ingoiare i cento grammi di pane che il nemico ci passava! Quanti alla sera si addormentavano e non si risvegliavano più al mattino (…). Pure nell’ospedale (per modo di dire) gelavano i piedi agli ammalati e anche lì  si era preda dei pidocchi, colla medesima razione di pane del campo, cioè la pagnotta in otto, colla variante che si aveva la carne tutti i giorni. Le medicine non ci sono e se vivi, bene, se no, ti sotterrano completamente nudo, perché la camicia e le mutande serviranno per un altro povero disgraziato! E quante altre miserie dovrei dirle della nostra obbrobriosa prigionia”.

Il grande Esercito Austro-Ungarico a fine ottobre 1918 si dissolse: i suoi soldati oramai non sentivano più il vincolo con la Monarchia Asburgica, una motivazione ai loro ideali e sacrifici per seguire a combattere. Lasciarono le trincee insanguinate da tante battaglie: dopo anni di guerra desideravano solo più di ritornare al più presto nella loro terra, che per alcuni stava diventando una nuova Patria (Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia, Ungheria).

Giunsero, quindi, la nostra vittoria di Vittorio Veneto (pensata inizialmente come un’azione dimostrativa, con il ‘generalissimo’ Armando Diaz scettico, mentre l’Esercito nemico si stava sfaldando, con i reggimenti cechi, polacchi, croati ed ungheresi che abbandonavano la lotta), una battaglia iniziata il 23 ottobre 1918; quindi l’Armistizio di Villa Giusti, sottoscritto il 3 novembre, il “Bollettino della Vittoria” del 4 Novembre, redatto, con qualche sfondone, forse dovuto alla fretta, anche dal giovane ufficiale piemontese Ferruccio Parri, che gli scolari della penisola avrebbero appreso a memoria. Con Parri c’era allora l’ufficiale toscano Giovani Gronchi, che sarebbe diventato Presidente della Repubblica. Tutta la classe dirigente che avrebbe governato l’Italia nei successivi 50-60 anni era al fronte: Mussolini, De Vecchi, De Bono, Balbo, Farinacci, Costanzo Ciano, Dino Grandi, Bottai, Nenni, Saragat, Togliatti, Pertini ed infiniti altri. Ma pure intellettuali come D’Annunzio, Montale, Malaparte, Soffici, Bontempelli, Comisso, Ungaretti, Gadda. E chierici come Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII. Nessuno, penso, si sentì tradito.

Diaz, scriverà Montanelli, se ne stava, un pomeriggio d’ottobre, con la faccia appiccicata ad una carta geografica del Veneto, e si aiutava con una grossa lente d’ingrandimento. Dopo averla più volte percorsa inutilmente, si voltò verso Parri e, in napoletano, chiese: “Ma ‘sto Vittorio addò cazzo sta?”. La cittadina era nata nel 1866 con l’unione dei preesistenti comuni di Ceneda e Serravalle, assumendo il nome di “Vittorio” in omaggio a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia.

Vittorio Veneto venne usato a partire dalla battaglia. Le truppe italiane entrarono a Trento e Trieste festanti. Chi non apprezzava non scendeva in piazza, rimaneva a casa, magari pregando, nell’attesa di cambiare, con decreto prefettizio, il cognome Koenig in Del Re… 

Nell’estate 1914 una follia  contagiosa, collettiva,  aveva  precipitato  l’Europa nell’immane catastrofe, nella quale uomini apparentemente esperti e ragionevoli, sovrani, capi di governo, militari rimasero ingabbiati, intrappolati dai propri strumenti operativi, dalle alleanze, dalle logiche degli Stati Maggiori, dall’eccitazione delle pubbliche opinioni, dai sentimenti patriottici,  dalla miope sottovalutazione dei rischi. Saranno alla fine 16 o 17 milioni di caduti, un maggior numero di mutilati, oltre a tutte le vittime della “influenza spagnola”, probabilmente più di venti milioni di morti. Una pandemia che i soldati americani portarono in Europa, originatasi in una fattoria, causata dalle mucche o dai polli. Pandemia che affrettò, in ultima analisi, la conclusione del conflitto, che si prolungò poi fino al 1920, in tutto il mondo, mietendo vittime di ogni condizione sociale, tanto prìncipi come contadini. Conflitto immane e spaventoso che fu il precedente, la causa determinante di un ancor peggior guerra, vent’anni più tardi, nel 1939, che perfezionò il suicidio dell’Europa.

Il primo agosto 1914, verso le 18,30, l’Imperatore tedesco, Guglielmo II, si affacciò al balcone principale del Berliner Stadtschloss e ad una folla in delirio, di oltre centomila persone, annunciò l’Ordine di Mobilitazione per l’imminente guerra contro la Russia. Alla folla ebbra di volontà e di fiducia, convinta del suo buon diritto, dimenticata ogni differenza sociale o di ideologia, che gridava “Viva l’Imperatore” ed intonava l’ “Heil dir im Siegerkranz”, il Deutsche Kaiser dai baffoni a manubrio avrebbe poi fatto un’altra delle sue impulsive promesse: “I nostri soldati torneranno a casa vittoriosi prima che sian cadute le foglie dagli alberi”. Mai previsione fu più errata. Allora sembrava una vergogna non disprezzare la vita. Il fascino della bandiera, il sangue generoso, la gloria della Patria stordivano quasi tutti. Il “Patriottismo” si era trasformato in “Nazionalismo”, crescentemente esclusivo, espansionista, colonialista.  

Dal patriottismo romantico si era infatti passati, in pochi decenni, al nazionalismo radicale ed all’imperialismo su scala planetaria. Dal patriottismo ideale di Manzoni, Mazzini, Renan, al nazionalismo aggressivo di Corradini, D’Annunzio, Oriani, Barrès, von Treitschke.  In qualche modo, la Vaterland bismarckiana e guglielmina oscurò progressivamente la Heimat. Ambedue germaniche. Vaterland è una nozione politica, è il proprio Stato in quanto contrapposto ad altri Stati, è la terra a cui si appartiene, che si deve e si vuole difendere. La Heimat invece non si contrappone ad altre Heimat: è un territorio definito non già dalla sua appartenenza ad un sistema politico di patrie contrapposte, ma dal legame che si ha con esso, il luogo verso il quale si è legati da affetto, da nostalgia, dalla convinzione che in esso ci sapremo orientare, il luogo in cui ognuno può ritrovare il proprio centro. A furia di pensare ad un conflitto ipotetico, esso arrivò nel 1914, improvviso, brutale, certo non casuale, ma quasi inaspettato in quanto a dinamiche. Gettando nello sgomento intimo anche chi pubblicamente era tenuto a dire tutto il contrario, ostentando un enorme ottimismo, come appunto il Kaiser Guglielmo. Questo nazionalismo esasperato necessitava peraltro, per esprimersi compiutamente e realizzarsi, di un massiccio consenso popolare. Di quella che ovunque venne definita la “nazionalizzazione delle masse”.

Poi il giorno tanto invocato o temuto arrivò anche per l’Italia. Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, dopo il vibrante discorso di D’Annunzio allo Scoglio di Quarto dei Mille ed una tambureggiante campagna interventista, del “Corriere della Sera” e di altri organi di stampa allora diffusissimi. Fu, quindi, la vittoria dell’eterogeneo “Partito della Guerra”, che riuniva irredentisti, liberali conservatori, futuristi, sindacalisti rivoluzionari, la dirigenza massonica, i nazionalisti, gli “interventisti democratici”, coloro che da una vittoria contro gli Imperi Centrali si aspettavano la rivoluzione sociale o almeno nuove libertà, un ordine del mondo più equo, Mussolini, Albertini e Salvemini, Corridoni e De Ambris, Gramsci e Togliatti. Essi aderirono o si fecero strumentalizzare dall’iniziativa del sovrano Vittorio Emanuele III e del Ministro degli Esteri Sonnino, contro il neutralismo dei liberali giolittiani, dei cattolici, dei socialisti e contro la maggioranza del Parlamento.

Per l’Italia la guerra era evitabile.  Anche Mussolini, Duce del Fascismo, riconoscerà anni dopo l’errore commesso nel 1915. Nei primi otto mesi di guerra di trincea erano già caduti oltre cinquecentomila soldati. Si conosceva il vero, orrendo volto del conflitto, non come era successo a francesi, inglesi, tedeschi, russi nell’agosto dell’anno precedente. Grazie alla paziente mediazione dell’ex Cancelliere del Kaiser, Bernhard von Bülow – per anni Ambasciatore di Germania a Roma, sposato con una aristocratica italiana e sincero amico del nostro Paese, nella cui amata Capitale si spegnerà nel 1929 – il Governo di Vienna avrebbe alfine acconsentito a trasferirci, a conflitto concluso, la sovranità su Trento, alla rettifica del confine sull’Isonzo ed a fare di Trieste una “Città Libera”; il tutto garantito da Berlino, in cambio della nostra neutralità. Roma si era macerata nei dubbi per dieci mesi. Fu alla fine la guerra un’opzione alquanto irrazionale che ebbe la meglio sulla maggioranza politica. Si opposero alla neutralità i miti risorgimentali ed irredentisti, l’ossessione per l’ingrandimento territoriale, il desiderio, per alcuni, di abbattere un “ordine antico”, identificato con gli Imperi Centrali. L’Italia “non entrò in guerra da sonnambula, ma ben sveglia”, come qualcuno notò. E presto cominciò a contare i suoi morti. Montagne di caduti. Saranno, alla fine, non meno 650.000. 

«Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi», questo è ciò che anche le nostre Autorità dissero ai soldati alla vigilia del 24 maggio, quando ne vennero arruolati alcuni milioni, per quasi metà analfabeti: contadini, pastori, artigiani, operai, un esercito senza una vera lingua comune, poco armato, peggio vestito, mal comandato. Non per difendere i sacri confini, ma per le trasognate fantasie di parte d’una classe dirigente tanto cinica, avida, imbevuta di mediocre letteratura, quanto miope e poco capace. Per solidarietà di Logge, per vaneggiamenti intellettualoidi. Che, tra l’altro, confermò all’estero, agli occhi di non pochi, l’idea del nostro Paese quale “sciacallo internazionale, sempre in cerca di compensi per i suoi tradimenti”.

Mentre l’abile Giovanni Giolitti era accusato d’indebolire lo Stato, caricaturizzato quale  “servo di Berlino”, l’Italia interventista partì idealmente con la camicia rossa sotto quella di ordinanza e con l’entusiasmo tipico d’una generazione educata alla scuola “carducciana”, convinta di andare a compiere il Risorgimento con una breve guerra di popolo, che avrebbe “educato” e “riformato” la nazione, costituendola in una poderosa unità morale, proiettandola da protagonista sul proscenio europeo. Coloro che nel 1914 -’15 andarono entusiasti al fronte erano spinti da un patriottismo che non può essere ridotto a slogan nazionalistici, moltissimi sentendosi cittadini prima che militari. Non andavano a combattere per il piacere della lotta, la violenza, l’eroismo, ma perchè il mondo intero sarebbe stato migliore vincendo. Giolitti, pacato e lungimirante, non condivise mai le ragioni dell’intervento, anche perchè con la Germania non avevamo contenzioso alcuno e grazie alla Prussia avevamo ottenuto il Veneto nel ’66. Poi appoggiò lealmente lo sforzo bellico, per un patriottismo che non era una formula retorica. 

          Sarebbe assurdo ed antistorico disconoscere ora la grande prova di resistenza morale e di unità che l’Italia sconfitta ed umiliata di Caporetto nel 1917 seppe poi dimostrare. Quella dei “Ragazzi del ’99”, esaltata dalla “Leggenda del Piave”. Coesione, nervi saldi e forza morale, esibiti dall’Italia dopo Caporetto e nella “Seconda Battaglia del Piave”, nel giugno 1918, quando austriaci e tedeschi tentarono, vanamente, l’ultima grande offensiva per vincere il conflitto sul nostro fronte. Tutto ciò fu poi riassunto e simboleggiato soprattutto dal grande Sacrario di Redipuglia,  ultima dimora di cento mila caduti. La glorificazione monumentale, la grande croce, il raduno dei morti, alla pari del “Milite Ignoto” o dei “Parchi della Rimembranza” o dei “Monumenti ai Caduti” in ognuno degli oltre ottomila Comuni della Penisola, avrebbero assicurato l’attualità perenne, la perpetuazione ideale del sacrificio, l’eroismo silenzioso del fante  e del popolo d’Italia. 

Tramontò, più tardi, una patria di illusioni dolorose. Non casualmente assassinando pure un Cieco di Guerra, Medaglia d’Oro al V.M., Carlo Borsani, figlio di un operaio caduto sul lavoro, poeta, giornalista, uomo di mediazione, credente nella pacificazione degli Italiani: con un colpo alla nuca, a guerra finita, ad opera di partigiani comunisti.  Finì un’Italia con le sue memorie. Debuttò, purtroppo, un’Italia che molto spesso non ebbe più rispetto di nessuno; il Paese – anche di Olmi – senza considerazione alcuna né del passato, né di eroi, né di reduci, né di mutilati, né di morti e neppure di vivi. 

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Gianni Marocco

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