Il caso. La tragedia del ponte di Genova e l’insegnamento di Junger

Non è facile scrivere in questo momento. Per un genovese quel ponte oggi crollato non era soltanto un pezzo di vita quotidiana. Qualcosa in più. Un simbolo. Lo si chiamava il Ponte di Brooklyn. Con quel tono scherzoso che solo l’autoironia di provincia riesce a mettere in scena.

Era uno dei simboli di una città fatta di lavoro e movimento: nonostante lo spazio limitato, l’abbraccio fra monti e mare, le tonnellate di merci e la quantità di turisti che su quel ponte passavano per Genova, dalla Francia al Nord Ovest, e viceversa, erano paragonabili giusto al flusso sanguigno nei pressi di un cuore vecchio ma ancora pulsante. Non è facile scriverne adesso. Verrebbe voglia di gettarsi sul pensiero tecnico, capire, cercare, accusare, desiderare di cambiare. Buttarla in politica. Ma sono un genovese atipico. Il dolore e la paura si placano nel distacco.

E giusto un passo del Trattato del Ribelle conferma la scelta:

“Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale”.

Junger parlava del Titanic. Ma poco cambia. Quel prodigio tecnico degli anni ‘60, nato per sostenere la grande accelerazione economica del miracolo italiano, per il Genovese, uomo di mare, poteva apparire come il Titanic. Tanto necessario quanto spaventoso. Un atto di fede. Molti di noi, nel rito quotidiano dell’attraversamento, confessavano di schiacciare sul pedale, per timore. Timor fati, timor dei. La fede, da sempre, prevede coraggio e superstizione. Nessuno avrebbe mai pensato davvero ad un crollo. Così come il Titanic non sarebbe dovuto affondare. E a ciò non vi è risposta. Non vi è commissione o indagine che possa salvarci dal dubbio. L’antico dubbio che attanaglia le budella come se la nostra esistenza dipendesse ancora da aruspici, tarocchi ed oroscopi. Come l’uomo di CroMagnon che esce dalla grotta con il grande timore di un appuntamento fatidico. Eppure i nostri Titani avrebbero dovuto liberarci di tanto fardello. La Tecnica domina e innalza come non mai. E in questi termini non ci è dato commettere errori di valutazione: in tutto il mondo, nel mondo che avanza ben più spedito del triangolo industriale degli anni ‘60, altissimi e lunghissimi ponti ad altissime prestazioni vengono issati.

Ed anche a Genova, con grande calma, un nuovo Brooklyn riparerà l’arteria crollata. Quel che non torna, piuttosto, è questa sensazione che in pochi potranno provare: questa adrenalina di libertà di fronte al caso, al divenire che irrompe in tutte le vite ben programmate nel giorno di ferragosto. Che questo evento tanto drammatico sia accaduto a Genova e non a Singapore od Hong Kong, città simili per genetica e vocazione, per noi che rifuggiamo il pensiero burocratico ci racconta di un’età delle città e delle sue genti. Di una dinamica del respiro di epoche e popoli. Così, alcuni Genovesi, adesso, si staranno domandando: stiamo vivendo bene? E’ qui la nostra libertà? E questo già basta a che l’uomo continui a vivere sul bilico di quella Linea che è la modernità, fra piloni di cemento armato e la ricerca del proprio segno zodiacale sul Secolo XIX di domani.

Giacomo Petrella

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