Cultura (di M. Veneziani). Quando Longanesi sognò la Lega dei Fratelli d’Italia

Un ritratto di Leo Longanesi

Quando Salvini e la Meloni non erano ancora nati, nacque in Italia, dal grembo de Il Borghese, la Lega dei Fratelli d’Italia. Il padre era naturalmente Leo Longanesi. Sognò di far nascere un movimento nazionale, conservatore, popolare e borghese, che non fosse neofascista, liberale e tantomeno democristiano. Ma fosse seriamente postfascista, giacché notava Longanesi: “la nostra democrazia ha un solo male, ha una sola tara: quella di esistere come avversario del fascismo; essa per vivere non trova altra giustificazione che quella di combattere un fascismo morto con Mussolini. Così assistiamo a una lotta di cadaveri verticali contro un cadavere orizzontale”. Fantastico. Era il 1955 e 63 anni dopo siamo allo stesso punto, anche coi grillini al governo.

Allora come adesso, si avvertiva la necessità di doversi inventare, un movimento che rappresentasse un mondo largo ed escluso, o mal rappresentato, antagonista alla sinistra, al clericalismo e al progressismo. Eravamo nell’era democristiana, i comunisti non erano ancora stati ammessi nell’anticamera dei governi, non esistevano le Regioni, l’Italia si stava riprendendo alla grande almeno sul piano del benessere, aveva trovato un accettabile compromesso col passato fondato sul’oblio, c’era il boom economico e gli italiani figliavano tanto, soprattutto a sud. Cosa dovremmo dire adesso, che il mondo è cambiato, siamo nell’unione europea, il debito è alle stelle, le regioni ci hanno distrutto, siamo pieni di migranti e vuoti di giovani e di élite, l’Italia è più smorta di allora, i figli non se ne fanno più e i morti superano i nati? Che ci vorrebbe una Lega dei Fratelli d’Italia… Ma la Lega c’è e, se nel giro di un mese non mutano ancora gli umori di questo paese psicolabile, è ora addirittura il primo partito. Al suo fianco, piccino e vanamente alla ricerca di una sua visibilità e di un suo ruolo, c’è quel che resta di An e del Msi, denominato Fratelli d’Italia, guidato in realtà da una sorella romanesca, brava e incisiva in tv.

Com’è allora che ci sentiamo rappresentati solo di striscio, e il disagio ancora prevale sull’appartenenza, l’estraneità prevale sulla partecipazione? Dipende dall’età, dalle delusioni collezionate, dall’eterna sindrome scontenta del Depresso Nostalgico che vive imprecando tra le rovine? O c’è qualche buona ragione per sentirsi stranieri a casa propria, più dei migranti e non solo a causa loro? Certo, c’è la soddisfazione nel vedere i perdenti, la sinistra squagliata, l’establishment colto da lievi crisi di panico, i Papi, i Presidenti, gli Illustrissimi che fanno l’opposizione… È un po’ il piacere sadico che provammo con la vittoria di Trump, che fu sopratutto la sconfitta di quell’America padrona, di quelle 4 o 5 famiglie che comandano, di quel mondo liberal, radical, affetto da razzismo etico e culturale. Ma basta la soddisfazione di vedere i perdenti per gioire dei vincenti al governo? Nel nome del populismo inviso ai poteri forti e all’Europa, dobbiamo farci piacere perfino i grillini che sparano ancora ogni giorno minacce a chi sta bene per far godere chi sta male; ma godere solo col rancore, perché se togli i privilegi veri o presunti a uno, non fai star meglio con la redistribuzione egualitaria, cento o mille. Dividi solo briciole di risentimento, appaghi solo l’invidia e il malocchio… Ma noi speriamo, l’occasione è imperdibile, un cambiamento c’è stato, anche se non si capisce la rotta. Il mondo sta svoltando. E si confida, in Salvini e nella sua Lega, coi Fratelli d’Italia in frigorifero. E con l’incertezza se poi ritroveremo un centro-destra a trazione leghista, come si dice; o lo scenario è ormai cambiato e la lotta sarà davvero tra populisti e potentati. Non dite per favore tra élite e popolo, perché un popolo senza élite, senza classe dirigente, senza aristocrazia, non va da nessuna parte. Dite piuttosto oligarchie, sette, potentati senza legittimazione. Oltre i tribuni della plebe ci vogliono le élite capaci.

Marcello Veneziani

Ma torniamo alla Lega dei Fratelli d’Italia di Longanesi. Lui era il presidente, il giovane Piero Buscaroli ne era il segretario: due persone totalmente prive di senso politico e organizzativo, a parte libri e giornali. Debuttò con un affollatissimo convegno su “Cos’è la destra in Italia” al teatro Odeon di Milano. Con un discorso “bellissimo e inutile” di Longanesi, dirà Gianna Preda. Scettica come Mario Tedeschi sull’iniziativa. E infatti Longanesi si stancò presto del suo movimento, seccato dalla ressa di delusi, lamentosi, arrabbiati che c’era già allora e che lo incalzava ovunque. E la destra-destra sfumò ancora una volta, sfarinandosi tra missini, monarchici, destra dc e destra liberale. La storia di quell’aborto longanesiano un po’ la racconta Buscaroli ne Una nazione in coma, ripreso da Penne al vetriolo di Alberto Mazzuca (editi ambedue da Minerva). L’epilogo di quell’avventura è una tavolata al Rosati di Roma nel ’57 con Montanelli, Pannunzio, Flaiano, Benedetti. Montanelli, che deve la sua salvezza al suo scetticismo, accusò Longanesi di “averci fatto sedere sulle poltrone più scomode, in guerra con tutti… E tutto questo per difendere il mondo di Longanesi dove non c’era che Longanesi”. Montanelli racconta che lui, Leo, lo ascoltava “con la bocca atteggiata a un risolino compiaciuto. E aveva ragione perché tutte queste accuse contro Longanesi erano la sua apologia”. Così perì la Lega dei Fratelli d’Italia e si salvò il suo Autore. Ma poco dopo, a 52 anni, Longanesi se ne andò, breve e fulminante come sempre. Lasciando molti conti in sospeso e tutti i suoi giocattoli: la casa editrice, il Borghese, la destra, la Lega dei Fratelli d’Italia.

*Da Il Borghese

Marcello Veneziani*

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