Ovvero – paradossalmente per un malmostoso nichilista – la vendetta dell’umanesimo, arnese inservibile ma ancora contundente se maneggiato a dovere, contro le sterili certezze della tecnica e la tirannia del numero, contro le pretese idiote della politica. Dapprima fu La morte del sole (1982), radicale apologia dell’inanità, destrutturata esegesi della decadenza vergata senza opporre resistenza, messa a stagionare nelle cantine Adelphi, prima di apparire nelle librerie come un’eclissi inattesa due anni dopo. Avanti così, a rigirare la lama nei tessuti lacerati, farfalle di sangue: Trattato sull’empietà, La conoscenza del peggio, De mundo pessimo, Anatol, oltre a una serie di trattati d’impostazione schopenhaueriana (Del pensare breve, Della misantropia, Del delitto, e altri). Insomma, senza entrare qui nel dettaglio, tutta una speleologia d’anfratti, lo scavo di un vegliardo destinato a sbucare fuori indenne, dall’altra parte del mondo. E quale fu, per Sgalambro, l’altra parte del mondo? Dapprima l’incontro casuale (casuale?) con Franco Battiato, sfociato in una stretta, conflittuale, ma lunga collaborazione, che vide come apice di popolarità il grande successo de La cura. Fu così che l’elegiaca canzonetta, invero impreziosita da cenni surrealisti (“Vagavo per I campi del Tennessee, come vi ero arrivato chissà, non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile I miei sogni attraversano il mare”), riportò Battiato al doppio registro del Giano – esoterico/essoterico – degli anni ’80, quando cantava per gli occhialuti circoli della lettura e, contemporaneamente, per i playback del Festivalbar. Poi vennero le scritture di testi per Patty Pravo, Alice, Carmen Consoli, Adriano Celentano, Ornella Vanoni e altri. Fino al punto di non ritorno, o forse d’eterno ritorno: la folle cover di Me gustas tú di Manu Chao, contenuta nel suo primo disco pop, intitolato Fun club. Il club del divertimento: paradossi e perversioni di un sardonico pessimista.
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Che bello giocare coi pupi della tv, nevvero mr. Sgalambro? A patto di saper volteggiare nel ludico, nel dionisiaco, in piroette ebbre e alta falconeria. Tant’è che il burbero, ruvido e misantropo filosofo, divenne alla fine dei ’90 una curiosa presenza mediatica; come un melograno maturo, cipiglioso in chicchi arcani, situazionista per estenuato fatalismo, divertito nel rispondere alle domande sceme del pubblico, della plebe che sempre aveva detestato, in quanto marasma umanoide indistinto, in quanto massa soffocante le libertà del singolo individuo. Quelli difatti, plaudenti, ridevano della sua senilità esibita sul palco, egli invece rideva in un ghigno beffardo della loro uniforme ingenuità. L’ingenuità di ogni pubblico, del resto. Perché c’era più niente da dire, se non l’allegoria, l’oltraggio del giallo Adelphi dato alle masse come una brioche, per un cabaret patito sulla propria raggrinzita pelle; quella tragedia ancestrale, così intima al siciliano, a costo di apparire ridicolo, divenne l’elegante beffa di un cinico. Una maschera e nulla più. L’impossibilità di contemplazione, non fosse per le rovine del classico, si fece tedio buffo. Un caffè al bar, fioretto con l’antimafia militante, un disco con Battiato, che importa? Quella di Sgalambro fu l’aristocrazia di un moralista reazionario, tutta la sapienza di uno scettico della schiatta degli eterodossi, distillato di pessimismo e divertimento, l’arte dell’Umano troppo umano, in assenza di uomini.