Artefatti. Manlio Sgalambro, dell’Umano al tempo dell’assenza degli uomini

Esistette e forse esisterà per sempre, nella eco eterna dell’accaduto, il sud del sud dei Santi. Così come, specularmente, quello dei demoni; posizionato ancora più giù, geograficamente ancora più a fondo nel Mediterraneo, rispetto alle ossa dei martiri, messe sotto teca nella cattedrale di Otranto. Rispetto ai relitti della storia, inabissati nella nostalgia del mito. Non la Sicilia dei Catari, dei Fedeli d’amore, o dei rosacrociani, dunque; nemmeno quella luciferina di Aleister Crowley, operante nel presidio orgiastico dell’abbazia di Thelema, inaugurata negli anni ’20 a Cefalù, con sommo scandalo delle autorità e della popolazione locale. Qui demone, il dáimōn degli stoici e dei neoplatonici, antecedente il dualismo morale cristiano e avente caratteristiche di intermediario tra umano e divino, assume i connotati filosofici di un materialista irregolare, di un dottissimo e per certi versi stravagante antiaccademico, ovvero Manlio Sgalambro. Demone riottoso, nadir sobillante la propria funzione di medium, cattivo maestro per bizantina pratica d’empietà. Nato a Lentini, morto a Catania nel 2014, il pensatore siciliano può essere considerato affine, per caustico pessimismo, all’apolide Cioran. Entrambi atei, rivolti ad Oriente, entrambi spietati fustigatori di ogni consolatorio cencio, indossato come se fosse ermellino. Beninteso, togliendo subito di mezzo l’esterofilia che da sempre ci imbambola al cospetto delle pose parigine, sarà il caso di ribadire l’assoluta originalità di Sgalambro, rispetto a suoi contemporanei e posteri, nella trattazione del nichilismo post-nicciano. Qui, come paradossale trait d’union capace di collegare l’indolente fatalismo di un isolato isolano alle belle copertine gialle (stessa tonalità di quelle di Schopenhauer e Cioran) della Piccola Biblioteca Adelphi, sta la preziosa farina del diavolo, la crusca del filosofo. Il residuo di una ininterrotta macinazione intellettuale: gran stile di lama roteante, nello sbriciolamento meticoloso di concetti, sistemi, impalcature. Tutto un lavorio da sofista, nobilmente dedicato a una facezia, alla spirale del fumo di una sigaretta. Vanitas. Lo vedete? Con gli occhiali scuri e l’espressione corrucciata? Come un miniaturista cancellante, cesellatore di vuoti, un implacabile denocciolatore d’olive umane. Eremo, in corrucciato sprezzo: se tutti recitano nessuno recita; se tutti pregassero Dio si farebbe tiranno, consegnando la bontà alla noia di un obbligo. Quindi il tuffo irrazionale, balzo incosciente da una scogliera in cartolina, direzione apnea. Perché se nulla ha più senso, pare inutile incapricciarsi sulla profondità del baratro.

Ovvero – paradossalmente per un malmostoso nichilista – la vendetta dell’umanesimo, arnese inservibile ma ancora contundente se maneggiato a dovere, contro le sterili certezze della tecnica e la tirannia del numero, contro le pretese idiote della politica. Dapprima fu La morte del sole (1982), radicale apologia dell’inanità, destrutturata esegesi della decadenza vergata senza opporre resistenza, messa a stagionare nelle cantine Adelphi, prima di apparire nelle librerie come un’eclissi inattesa due anni dopo. Avanti così, a rigirare la lama nei tessuti lacerati, farfalle di sangue: Trattato sull’empietà, La conoscenza del peggio, De mundo pessimo, Anatol, oltre a una serie di trattati d’impostazione schopenhaueriana (Del pensare breve, Della misantropia, Del delitto, e altri). Insomma, senza entrare qui nel dettaglio, tutta una speleologia d’anfratti, lo scavo di un vegliardo destinato a sbucare fuori indenne, dall’altra parte del mondo.  E quale fu, per Sgalambro, l’altra parte del mondo? Dapprima l’incontro casuale (casuale?) con Franco Battiato, sfociato in una stretta, conflittuale, ma lunga collaborazione, che vide come apice di popolarità il grande successo de La cura.  Fu così che l’elegiaca canzonetta, invero impreziosita da cenni surrealisti (“Vagavo per I campi del Tennessee, come vi ero arrivato chissà, non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile I miei sogni attraversano il mare”), riportò Battiato al doppio registro del Giano – esoterico/essoterico – degli anni ’80, quando cantava per gli occhialuti circoli della lettura e, contemporaneamente, per i playback del Festivalbar. Poi vennero le scritture di testi per Patty Pravo, Alice, Carmen Consoli, Adriano Celentano, Ornella Vanoni e altri. Fino al punto di non ritorno, o forse d’eterno ritorno: la folle cover di Me gustas tú di Manu Chao, contenuta nel suo primo disco pop, intitolato Fun club. Il club del divertimento: paradossi e perversioni di un sardonico pessimista.

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Che bello giocare coi pupi della tv, nevvero mr. Sgalambro? A patto di saper volteggiare nel ludico, nel dionisiaco, in piroette ebbre e alta falconeria. Tant’è che il burbero, ruvido e misantropo filosofo, divenne alla fine dei ’90 una curiosa presenza mediatica; come un melograno maturo, cipiglioso in chicchi arcani, situazionista per estenuato fatalismo, divertito nel rispondere alle domande sceme del pubblico, della plebe che sempre aveva detestato, in quanto marasma umanoide indistinto, in quanto massa soffocante le libertà del singolo individuo. Quelli difatti, plaudenti, ridevano della sua senilità esibita sul palco, egli invece rideva in un ghigno beffardo della loro uniforme ingenuità. L’ingenuità di ogni pubblico, del resto. Perché c’era più niente da dire, se non l’allegoria, l’oltraggio del giallo Adelphi dato alle masse come una brioche, per un cabaret patito sulla propria raggrinzita pelle; quella tragedia ancestrale, così intima al siciliano, a costo di apparire ridicolo, divenne l’elegante beffa di un cinico. Una maschera e nulla più. L’impossibilità di contemplazione, non fosse per le rovine del classico, si fece tedio buffo. Un caffè al bar, fioretto con l’antimafia militante, un disco con Battiato, che importa? Quella di Sgalambro fu l’aristocrazia di un moralista reazionario, tutta la sapienza di uno scettico della schiatta degli eterodossi, distillato di pessimismo e divertimento, l’arte dell’Umano troppo umano, in assenza di uomini.

Donato Novellini

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