Focus. “Gli ultimi mohicani” di Solinas e l’Italia che si accontenta di esistere

solinasPuò apparire strano che un libro sulla fine dell’Italia e l’implacabile decadenza degli italiani, sul loro orrendo, pasoliniano involgarirsi e perdersi, susciti, oltre al dolore morale, un rinnovato sentimento di affetto per quella che bene o male è la propria patria. Eppure è proprio questo l’effetto de Gli ultimi mohicani (Bietti) di Stenio Solinas, il suo libro più asciutto, più essenziale e più amaro.
Un paradosso se si vuole o forse no. Perché che altro è mai stata l’Italia – al di là delle retoriche celebrative e ideologiche – se non l’idea di alcuni esiliati – Da Dante a Verdi, da Mazzini a Prezzolini – che l’hanno sognata e descritta per quello che avrebbe potuto essere e non è stata mai? E del resto l’Italia nasce espressione letteraria, come sosteneva De Sanctis, un’astrazione.
Stenio Solinas è un esule in patria a cui la patria ha fatto male: “un paese che ha rinunciato a essere e si accontenta di esistere”, che dimentica a memoria la sua storia per riscriverla così che l’8 settembre, il giorno della morte della patria, si trasforma nella data della sua redenzione.
Ma chi sono gli ultimi mohicani? Sono quelli come lui che nati a metà del novecento si sono impegnati per dar corpo a una speranza rivoluzionaria per poi ritrovarsi nel nuovo millennio del pensiero pop a contemplare la cenere di quell’imponente eruzione vulcanica che è stato il secolo delle ideologie levatrici di storia. Senza darsi pace del fatto che ormai niente abbia veramente importanza se non sopravvivere. “La sensazione di essere come gli ultimi Mohicani nasce da qui, l’intestardirsi a sognare e cercare qualcosa che non c’è più”.
Anche perché se il Novecento delle ideologie ha prodotto lutti e distruzioni per eccesso di energia non è che il nuovo secolo in quanto a nichilismo e regressione prometta niente di meglio.

Ma Solinas non è un nostalgico, né un illuso; è uno scrittore civile che con le ideologie ha chiuso quando ancora c’era gente che con esse si baloccava e lucrava salvo repentinamente poi scoprire, con l’avvento del riflusso, che l’essenza della vita sono il cazzeggio e il denaro. Per quelli come Solinas, non basta tirare una riga, far finta di niente, consolarsi con “il brunch, il lunch…l’after hour, il fusion e lo slow food”. E preso atto che le ideologie erano state un letto di Procuste per la vita ha scoperto altre dimensioni d’azione. Ha cominciato a viaggiare e a scrivere reportage bellissimi come L’onda del tempo e Vagamondo. Ha interrogato gli autori che hanno scolpito il suo sentimento del mondo e ne è venuto fuori quel libro pieno di destini esemplari che è Compagni di solitudine. Adesso però Solinas sente d’aver lasciato qualcosa in sospeso, come un debito intellettuale. Perché sarà anche “porca” questa Italia, con la sua storia che è una lunga bava di nequizie e di viltà (strazianti le pagine sugli anni settanta) ma questa Italia siamo noi. E tu puoi scrutare l’orizzonte dall’isola di Sant’Elena o seguire le tracce di Chatwin lungo la via dei canti e però le tue radici affondano lì dove il destino ti ha fatto venire al mondo. “Non sono un uomo metafisico… Son nato in un certo posto, appartengo a una certa razza, ho dietro di me una storia, una tradizione” diceva Giovanni Papini.

Per due volte Solinas accenna in questo libro così impersonale alla sua persona ma solo per sorprendersi ad avere compassione per se stesso, convinto che a parlare di certe cose si rischi la macchietta e comunque che non t’ascolti più nessuno. Si sbaglia. Se ci sono ancora degli italiani che non si nascondono l’orrore ma che non si vergognano d’esser tali è per quelli come lui. In Italia solo gli esuli hanno una patria.

*da Libero

Riccardo Paradisi

Riccardo Paradisi su Barbadillo.it

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