Storia. L’anniversario della congiura (anti Mussolini) del 25 luglio 1943

Sull’argomento sono stati scritti decine e decine di libri, alcuni pregevoli, altri meno, e migliaia di articoli. Oltre ad una memorialistica certo di parte, riflesso di personali contingenze, ma non per questo priva d’interesse. Sull’argomento sono, ovviamente, legittime letture ed interpretazioni diverse, oggi come subito dopo la caduta di Mussolini e del fascismo. Tra le opposte tesi del tradimento e della congiura – in qualche modo ratificate da Benito Mussolini stesso nel 1944 sul “Corriere della Sera” nell’inizialmente anonimo Il tempo del bastone e della carota (Storia di un anno)    e quella di un “progetto”, lasciato furbescamente maturare dal Duce, in fondo desideroso di essere estromesso dal potere militare o anche politico (ma certo non di finire prigioniero), onde non caricare personalmente con il peso della ormai inevitabile resa dell’Italia – possibilità sostenuta dalle SS contro l’avviso di Hitler – sono state elaborate, in fase di ricostruzione storiografica e giornalistica, svariate ipotesi.

Il vorticoso giro di rapporti fra monsignor Montini, sostituto alla Segreteria di Stato di Pio XII, ed il Re, la nuora Maria Josè, Galeazzo Ciano ed emissari anglo-americani, ha pure lasciato il sospetto che il Vaticano abbia allora avuto un ruolo ben più attivo di quello di spettatore terzo. Dino Grandi, già Ambasciatore a Londra, era allora Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, un organo non elettivo e con un ruolo complementare. L’art. 2 della legge istitutiva del 1939 infatti così recitava: “Il Senato del Regno e la Camera dei fasci e delle corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Egli fu, dall’alto di un notevole prestigio personale, probabilmente immeritato, autore principalissimo dell’iniziativa, poi sfociata nel suo OdG per estromettere il Duce dal potere ed ottenere la pace dagli Alleati. Essa scattò nella seconda parte del 1943, ma non sarebbe stata concordata nei particolari con Vittorio Emanuele III. Nel corso dell’udienza privata con il sovrano il 4 giugno, Grandi gli espose, comunque, il suo piano. Il Re disse che solo il Parlamento o il Gran Consiglio avrebbero potuto “indicargli la strada”. 

Fra le testimonianze  memorialistiche credo che rivestano un particolare valore  quelle di  Alberto De Stefani e di Luigi Federzoni. Quest’ultimo fu uno degli elaboratori e sottoscrittori dell’OdG Grandi. Le riassumo brevemente.

Alberto De Stefani (Verona, 6 ottobre 1879 – Roma, 15 gennaio 1969) era stato l’unico parlamentare eletto in una lista fascista alle elezioni del 1921. De Stefani fu un economista e docente universitario di grande ed indiscusso valore. All’indomani della Marcia su Roma (ottobre 1922), Mussolini lo volle con sé al governo come Ministro delle Finanze e del Tesoro. De Stefani da quella postazione mirò a quello che era stato l’obiettivo delle grandi personalità della Destra Storica: il pareggio del bilancio. Pareggio che ottenne nell’estate del 1925. De Stefani tornò poi all’insegnamento ed alla collaborazione con il «Corriere della Sera», salvo essere richiamato in servizio dallo stesso Mussolini alla guida di un Comitato per la riforma burocratica. Negli anni Trenta De Stefani fu contrario alla guerra d’Etiopia e, quando l’Italia strinse un’alleanza con Tokyo in vista di un nuovo conflitto, lui — in contrasto con l’opzione giapponese — accettò di diventare consulente del governo cinese.

Luigi Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878 – Roma, 24 gennaio 1967) era stato, nel 1910, uno dei fondatori dell’Associazione Nazionalista Italiana. In ottimi rapporti con il re Vittorio Emanuele III, nel 1922, al momento della Marcia su Roma, Federzoni aveva avuto un ruolo forse decisivo nel tenere Mussolini al corrente delle decisioni del sovrano. Il Duce lo compensò affidandogli il Ministero delle Colonie e poi, per premiarlo della fedeltà dimostrata ai tempi del delitto Matteotti, nel 1924 lo spostò agli Interni, dove rimase fino al 1926. Ma anche lui, come De Stefani, negli anni Trenta poco fece per nascondere il proprio dissenso ( fu molto critico della legge sul Gran Consiglio del Fascismo che costituì il riconoscimento formale dello status costituzionale del PNF) ed ebbe alte cariche sostanzialmente onorifiche: la Presidenza del Senato prima (1929-1939), poi quella dell’Accademia d’Italia (1938-1943). Fu tra i pochissimi che nel 1938 si opposero apertamente alle leggi razziali. 

In Gran consiglio, ultima seduta (con prefazione di Francesco Perfetti, Le Lettere, 2013), Alberto De Stefani  pensa che Mussolini non abbia sollevato un’eccezione di costituzionalità in merito all’ordine del giorno Grandi, «benché non potesse essergli sfuggito» che quell’iniziativa era «incostituzionale»; perciò il Duce stesso «legalizzò» in qualche modo «l’iniziativa rivoluzionaria ed il colpo di Stato del Gran Consiglio». Del resto Mussolini era da tempo «uscito dai propri limiti legali, avocando a se stesso con un atto rivoluzionario la rappresentanza del fascismo e il diritto di interessarsi, eccedendo i propri poteri, di questioni riguardanti i supremi interessi della patria». 

Questa lettura della seduta del Gran Consiglio del 25 Luglio 1943, «che tende a sottolineare una dimensione rivoluzionaria e incostituzionale» e ad «avallare l’idea che in quella sede fosse stato realizzato un colpo di Stato», osservava Perfetti, «è in contrasto con le affermazioni fatte, in più sedi, da altri firmatari dell’ordine del giorno Grandi», i quali, al contrario, «hanno sempre rivendicato la correttezza giuridica dell’iniziativa e negato per essa ogni retropensiero di natura eversiva». Primo tra tutti Dino Grandi nel suo celebre 25 Luglio. Quarant’anni dopo, a cura di Renzo De Felice (Bologna, Il Mulino, 1983). 

 D’altro canto, lo stesso De Stefani rigetta la categoria del «tradimento», richiamando l’attenzione sul fatto che l’ordine del giorno Grandi era un «documento tattico» che offriva a Mussolini un’opzione per il superamento della crisi, mettendo in evidenza come le critiche alla degenerazione del fascismo fossero condivise anche da coloro che non avevano sottoscritto il documento. Secondo De Stefani, Mussolini aveva «già da quella notte sentito salire in sé stesso la necessità storica della sua esclusione». E questo spiegherebbe perché egli sia stato così remissivo nel corso di quella lunghissima nottata ed il giorno seguente, non aderendo neppure all’invito angosciato della moglie Rachele, non l’unico, di non recarsi a Villa Savoia: 

«L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio è stato silenzioso; un’accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi; la macchina era stata messa in moto e avrebbe continuato a muoversi; non era più in nostro potere di arrestarne la implacabilità; noi stessi ne eravamo lo strumento; della nostra libertà si era impadronita quella misteriosa macchina che gli uomini dicono fatalità; la sua logica ci dominava e noi avevamo perduto la nostra libertà». 

Ed ancora: 

«Il Duce è stanco: s’abbandona sul suo scranno per cercarvi un sostegno al suo abbandono; ordina al segretario del partito di fare l’appello; siamo tutti presenti, anche coloro che soggiornavano fuori di Roma e che non avevano ricevuto l’invito; anch’essi erano tornati per un misterioso richiamo interiore; molti di noi avrebbero potuto essere legittimamente assenti, ma ognuno aveva sentito qualche cosa in sé che lo aveva fatto tornare; le risposte all’appello sono monotone, impersonali, hanno un timbro unico e sono date a mezza voce… La nostra personalità sembrava scomparsa, eravamo tutti lì per adempiere lo stesso dovere; nessuno aveva qualche cosa da esprimere di suo, di particolare che non fosse comune anche agli altri, o che anche gli altri non avrebbero detto». 

Secondo Federzoni, invece, non si dovrebbe assolutamente parlare di colpo di Stato o di congiura. «Prima di tutto», scrive in Memorie di un condannato a morte (redatte mentre era rifugiato nell’Ambasciata del Portogallo, dopo il 26 luglio ’43, e pubblicate nel 2013 da Francesco Perfetti) «niente “fellonia” né tampoco “agguato”, “imboscata” ecc.: parole altrettanto gonfie di fragore quanto vuote di senso, con le quali ci si vorrebbe squalificare. Grandi preavvisò Mussolini fin dalla mattina del 22 circa la nostra iniziativa, e poi gli inviò, a mezzo di Scorza (n.d.r. Segretario del PNF), il nostro ordine del giorno». Perciò, prosegue, non si può dire che ci fu colpo di Stato; si ebbe invece l’«esercizio legittimo di una potestà statutaria del sovrano, esercizio suffragato, sebbene non ce ne fosse bisogno, dal non meno legittimo voto del Gran Consiglio».

 (Da http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=0000002243257)

Albertina Vittoria ha pubblicato in Studi Storici  (1995), I diari di Luigi Federzoni. Appunti per una biografia. Il diario piú importante Federzoni lo scrisse durante l’occupazione tedesca, mentre si trovava nascosto nell’Ambasciata di Portogallo presso la Santa Sede: una settantina di capitoli, dal settembre 1943 al giugno 1944. Questo diario, o alcune parti di esso, avrebbe dovuto esser stampato dall’editore romano De Luigi, con il titolo Le memorie di un condannato a morte, ma ne furono pubblicate solo alcune puntate sul giornale «L’Indipendente» di Roma e sulla «Nuova Stampa» di Torino nel giugno-luglio 1946. 

Il filo conduttore del diario del 1943-44  è rappresentato dalla riflessione di Federzoni sul ruolo svolto nel corso del ventennio fascista; laddove per Mussolini egli – come gli altri 18 membri del Gran Consiglio che avevano votato l’OdG Grandi – rappresentava il «traditore», mentre per Federzoni era il Duce che, con la sua politica demagogica e con l’aver trascinato l’Italia nell’avventura bellica, aveva tradito i presupposti su cui era nato il fascismo e nei quali lui  aveva creduto:

“Il fascismo non attuò, bensí sciupò, travisò e infirmò, con una volgarizzazione superficiale di tono demagogico, un organismo di idee in cui era un’essenza classica di ordine, di giustizia e di grandezza morale. Dal canto mio, alla vigilia della Marcia su Roma, l’8 ottobre 1922, parlando al «Lirico» di Milano in nome dei miei amici, avevo francamente indicato a quali condizioni i nazionalisti avrebbero assecondato un’eventuale azione di governo dei fascisti: rafforzamento dell’autorità dello Stato sopra i partiti; impero assoluto della legge; riconoscimento della monarchia come presidio fondamentale dell’unità e continuità della Nazione; tutela dei valori religiosi ed etici; elevazione materiale e morale dei lavoratori, accompagnata a ferma difesa dell’ordine sociale; indirizzo economico e finanziario antidemagogico. Avrò torto, ma io sono rimasto ligio a quei principi, nei quali allora pareva che tutti convenissimo”.

Era stato Benito Mussolini, «il Dittatore perpetuo, l’onnipotente padrone d’Italia per ventun anno, colui che aveva di fatto e ormai anche formalmente instaurato al posto della Monarchia una Diarchia», ad aver «contribuito per il 90 per cento al collasso dell’Esercito, con la sua opera incompetente ed incoerente di Ministro delle Forze Armate per oltre quattordici anni e poi di Comandante supremo in guerra» e ad aver portato il Paese alla disfatta. Ed era proprio questo che non gli veniva perdonato e che aveva portato i 19 membri del Gran Consiglio ad esautorarlo e molti altri a negargli la fiducia che gli avevano dato per vent’anni. 

Luigi Federzoni – l’unico sopravvissuto ad essersi sempre rifiutato di conversare con De Felice – riassume in sé l’atteggiamento di quella classe politica ed intellettuale di origine nazionalista, che aveva creduto nel fascismo per il bene della nazione, ‘orianamente’ costituitasi attraverso la sua «lotta politica»: a Mussolini non veniva perdonato “l’aver dilapidato follemente il patrimonio dell’unità, dell’indipendenza e della potenza d’Italia” nella disastrosa condotta della guerra. Testimonianza del passaggio, nella storia della nazione, dal fascismo alla democrazia, il Diario esprime il travaglio di una generazione che aveva visto crollare i propri ideali e che ora (dopo la conclusione del conflitto) s’interrogava sul proprio futuro: 

‘O l’Italia avrà ritrovato nei nuovi cimenti il vigore spirituale, che essa destò in sé venticinque anni or sono, e vincerà anche la minaccia del sovvertimento interno; o avrà fallito pure quest’altra prova, e dovrà correre l’alea di diventare, come la nascente Jugoslavia, un pianeta un po’ più grosso di quello nel sistema di cui Mosca è il sole”.

Circa le vicende del 25 luglio ’43 scriveva allora Federzoni:

‘Il crollo di Mussolini e del fascismo è avvenuto per il voto del Gran Consiglio. Contrariamente a quanto è stato piú volte raccontato Dino Grandi ed io, promotori del voto, agimmo di nostra spontanea iniziativa, all’infuori di qualsiasi inspirazione della Corte o dello Stato Maggiore. Per parecchi anni il compianto Italo Balbo, io e – compatibilmente con la sua continua assenza dall’Italia – Dino Grandi eravamo stati chiamati i frondeurs del Gran Consiglio, chiaramente avversi all’indirizzo totalitario della politica interna e a quello filonazista della politica estera. Nel luglio 1943 un certo rinnovamento apportato di recente alla composizione del Governo e, per riflesso, in quella del Gran Consiglio, mediante l’immissione di elementi ottimi, come De Marsico, Pareschi, Bastianini, Albini ecc., e principalmente l’impressione di sgomento prodotta dai disastri della guerra, autorizzava la speranza che un voto di biasimo dei funesti errori politici e militari che li avevano causati potesse finalmente raccogliere una maggioranza. E cosí, infatti, avvenne’. (http://web.tiscali.it/studistorici/1995/n3/1995307b.htm).

Eugen Dollmann, SS Standartenfher e rappresentante politico e personale di Himmler in Italia, gran mediatore e tessitore di accordi segreti, si occupò sollecitamente, dopo il 25 luglio e  la caduta del fascismo, di «stabilire fili di collegamento con il Presidente della Fiat, Vittorio Valletta» per mettere in piedi «un gabinetto pulito formato possibilmente da tecnici e funzionari apolitici, preferibilmente non compromessi con il fascismo». Piano che, dopo l’8 settembre e la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, «venne accantonato con danno per tutti, italiani e tedeschi», secondo quanto poi ne scrisse quel raffinato cultore della nostra storia, cultura ed arte nel suo libro più importante, Roma nazista ed in altri articoli, poi in parte raccolti in La calda estate del 1943, (2012), con prefazione di Francesco Perfetti.

Sono trascorsi ¾ di secolo. La polvere del tempo e della storia si è accumulata su quegli avvenimenti, non stemperandone, tuttavia, né l’importanza storica, né la residua conflittualità ideale o ideologica. Fu il 25 luglio una responsabile presa d’atto del fallimento di un regime, da parte della classe dirigente, o  la rivincita delle destre, cioè il ‘fascismo regime’ al collasso, contro l’innato carattere rivoluzionario del ‘fascismo movimento’, per usare categorie defeliciane?

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Gianni Marocco

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