Artefatti. I Tre colori di Kieslowski, la trilogia che sfidò il grigiore dell’Europa

Il Decalogo (nelle ingombranti VHS in allegato a Famiglia Cristiana), e soprattutto La doppia vita di Veronica, di Krzysztof Kieślowski, furono episodi formativi per una balorda generazione di cinefili, ventenni negli anni ’90, cresciuti sonnambuli dinnanzi alle sfasate elucubrazioni di Enrico Ghezzi, nelle interminabili notti di Fuori Orario. Il regista polacco, assieme a Herzog, Wenders, Fassbinder, Tarkowskij e ai soliti pretenziosi francesi, rappresentò un punto di riferimento imprescindibile, per chi allora non s’accontentava delle bamboccesche pellicole americane e nemmeno dell’ombelicale circoletto della filmografia tricolore.

“Roba da comunisti”, sostenevano i paninari, indebitamente agghindati con le spillette del ventennio, infilzate sul colletto dello Schott. Oggi direbbero Radical Chic. Sempre meglio dei fast food e della retorica manichea di Top Gun, Rocky, Rambo: difatti gli anni ’80 erano di colpo finiti, e i paninari corsero al riparo, travestendosi prima da grunge e poi chissà da cos’altro. Forse da bancari. Il muro caduto a Berlino, nell’89, scongelava un inatteso umanesimo nelle arti, una luce a est apparentemente retrodatata – almeno rispetto all’assuefazione nichilista da effetti speciali, in voga nelle libere colonie d’Europa – e quel momento storico fu come un abbraccio scritto negli astri. Tali luminescenze, forse, erano proprio le stelle gialle su drappo blu, dell’allora auspicata unione europea. Viaggiare, conoscere, sperimentare.

Così quell’ ingenua epifania, quell’interregno ancora grigio post-sovietico, fatto di marche da bollo, timbri, passaporti, colonne di TIR in attesa, transenne e filo spinato, biglietti ferroviari vidimati da una punzonatura, diventò l’humus per la poetica pendolare dei tre colori. Il gioco delle tre carte, transito est-ovest proposto da un abile prestigiatore polacco, edotto sulle vicende umane e ancor più riguardo a quelle dello spirito.

Parigi, dunque, vista con occhio mitteleuropeo, da intimo dissidente avverso al regime comunista. E dove sennò? La bandiera tricolore, Liberté, Égalité, Fraternité, fornisce a Kieślowski il canovaccio perfetto, per costruire la trilogia Tre colori – Film blu, Film bianco e Film rosso (realizzati tra il 1993 e il 1994) – nonché per lasciare in eredità la sua poetica antropocentrica, a un continente che velocemente muterà in peggio, divenendo sinonimo di burocrazia, tecnocrazia, astratto economicismo, mercantilismo, alienazione.

Riguardandole oggi, le tre pellicole paiono irrimediabilmente datate: dalle autovetture agli abiti, dai mezzi di comunicazione agli arredi domestici; però quell’opacità del girato, se confrontata con l’iperrealismo del digitale contemporaneo, diventa fascino, racconta la sublime mirabilia dell’artigianato; eppure qua e là appaiono già i primi telefoni cellulari giganti e le apparecchiature di controllo (Film Rosso), segni di ciò che verrà, ma come calati in un tempo di passaggio, nel quale l’uomo trattiene ancora presso sé la speranza. Un certo candore borghese anche nella cattiveria e nelle avversità, capace di tenere a bada il Leviatano, porge sempre un fiore all’accaduto, ingentilendo il nichilismo latente. I tre film, visionabili separatamente, assumono tutt’altra valenza se messi in correlazione tra loro. D’altronde il regista pensò bene di far correre sulla trama, l’ordito di alcuni preziosi intrecci; vasi comunicanti che prendono forma emblematica nella figura della vecchietta al cassonetto – ciò che si getta, come l’immondizia, potrebbe essere ritrovato, per acquisire una nuova dignità altrove – presente nei tre episodi, ma vista da angolazioni diverse. L’anziana, in difficoltà, nell’atto di depositare del vetro nell’apposita campana, verrà di volta in volta, ignorata per troppo dolore da Julie (Blu), osservata con un sorriso fiducioso da Karol (Bianco), infine aiutata da bontà d’animo da Valentine (Rosso). Altre scene, come quelle girate nel tribunale, vedono la concomitanza momentanea delle diverse narrazioni, sempre elegantemente segnalate dall’utilizzo subliminale dei tre colori. Zeffiro, diamante, rubino.

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I colori diventano così simboli alchemici, oltre a prorompere in atmosfere estetiche diffuse in grado di farsi impalcature delle vicende stesse, capaci di trasfigurare sordide storie interrotte in un disegno più vasto; traversie che sovente si completano grazie all’altro (uno che passava di lì per caso), mentre eventualità e predestinazione s’alternano, impollinate dai pigmenti corrispondenti alla storia. Lo scontro tra purezza dell’arte (o dell’amore) e piccole meschinità del quotidiano, in un continuo gioco ritmico, prende la forma di un grande romanzo dipinto in fotogrammi. La raffinata costruzione cromatica invade le case, luce che s’insinua negli interni, deborda nelle strade, rendendo uniforme la predestinazione, l’aderenza a ciò che accadrà; quella traccia spirituale segue con discrezione esistenze, che stanno fuori o dentro, trasforma la memoria in un caleidoscopio in frantumi, oppure in uno specchio al posto del prete, muto e chiuso nel suo confessionale.

Così il tempo, con le sue comunicanti camere segrete, svicola dal rigore dei quadranti svizzeri, dall’irreparabile crono; un’infinità di minuzie alle quali far caso, così come gli oggetti, accidentalmente divenuti importanti, segnano la via dell’imponderabile, altresì ribadendo l’accaduto. Nella trilogia ci trovi il Blue definitivo di Derek Jarman (l’onta della morte e l’affanno della purificazione), gli amanti dello stesso colore di Chagall e “il blu è un’oscurità indebolita dalla luce” – Goethe; scorgi il bianco freddo, innevato paesaggio rigido – dove si muovono i personaggi in cerca di tepore di Dickens – e l’arte di dormire in una valigia, così come l’ispirazione per L’uomo senza passato di Kaurismaki; infine quel legame purpureo con Amore a prima vista, volumetto poetico di Wislawa Szymborska, miracolosamente in bilico tra fato e caso.

Grandi attori fanno la loro parte egregiamente, ma qui non li nominiamo, perché sovvengono principalmente dei flash: le vasche al cloro di una piscina e i riflessi cobalto sulle partiture di un compositore defunto, l’immacolata veste di una sposa fuori dalla chiesa tra riso e piccioni, lo sfondo rosso di un cartellone pubblicitario, sul quale spicca una modella che si diletta a gonfiare una gomma da masticare. Le abatjour soffuse a casa di un vecchio giudice tradito, gli arnesi d’un parrucchiere, i gingilli cobalto d’una madre vedova annichilita dalla perdita. Dettagli fondamentali, un’infinità di immagini guidate dalla musica, cronache private, condotte al loro sinedrio da una sinfonia per il tempo a venire. L’Europa che tutti sognammo fu quella dell’attesa. La Trilogia del tempo che abbiamo dimenticato così in fretta, della forma delle cose che non riconosciamo più. Trilogia della persona che ci sta dinnanzi o alle spalle, che confondiamo, che barattiamo con un riflesso, invece che con una piccola tragedia. I tre colori sono quelli che ci hanno rubato i daltonici del mondo nuovo.

 

 

 

Donato Novellini

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