Artefatti. Al cimitero di Staglieno, il trionfo della Morte nell’apoteosi dell’al di qua

(foto di Giordano Bonelli)

Quale arcano maggiore lega Fabrizio De André a Nino Bixio? Giuseppe Mazzini alla moglie di Oscar Wilde, all’anagrafe Constance Lloyd? Il militare Fabrizio Quattrocchi all’anarchica Leda Rafanelli? Ferruccio Parri a Fernanda Pivano? o Anna Maria Ortese a Emanuele Luzzati? Semplice: la Morte; la marmorea tomba, l’eterno giaciglio delle spoglie terrene, il mausoleo di famiglia eretto sulla terra frolla.

Assieme ad alcuni cognomi genovesi importanti, pensiamo a Rubattino e Ansaldo, il cimitero monumentale di Staglieno, messo là su una collina nei pressi del capoluogo ligure, ospita anche un prestigioso elenco di poeti, musicisti, pittori, scultori, scienziati, garibaldini e, quindi, di risorgimentali patrioti. Cattolici, protestanti, ebrei, ripartiti nelle rispettive aree, dimorano in questa enclave immaginifica, fatta d’alberi e verdi declivi salmastri, di neoclassici tempietti, arcate liberty e, soprattutto, caratterizzata da un eclettismo scultoreo talmente realistico e onnipresente da risultare quasi stordente. L’atmosfera è oltremodo romantica, l’Ottocento più visionario imperversa ovunque, come se il razionalismo illuminista e in seguito le severe direttive napoleoniche sul decentramento dei cimiteri, avessero creato qui i presupposti per un’apologia en plain air del Bernini, ristabilendo una ridondante saga funebre, fatta di neogotiche allegorie, di ieratici simbolismi, più spesso di stupefacenti riproposizioni dell’umano affanno, al cospetto della morte. Angeli alati in ogni dove: severi, distaccati, compassionevoli, algidi, autorevoli, clementi, inermi, con o senza tromba dell’apocalisse, ma sempre trionfanti sulle straziate pose “dei loro cari”, piegati e piangenti, ma in qualche modo costretti in posa fissa, a fidare nell’aldilà.

Tuttavia, il campo santo di Staglieno è l’apoteosi dell’al di qua. Gallerie ad arco in statuario florilegio, imponenti colonnati messi in prospettive infinite, passaggi saturi di sarcofagi, bassorilievi, epigrammi, di marmoree opulenze borghesi, nell’ultimo blasonato rifugio di ricchi commercianti, così come di incompresi poeti dai nobili natali. Staglieno è il set più idoneo per il dannunziano Trionfo della morte, il perfetto campo di battaglia tra dionisiaco e apollineo; è il luogo dove la metafisica cristiana si trasforma – come nel Barocco – in ascetica messa negli abissi del puro decorativismo. Altresì, l’iconografia cattolica deborda qui in una sorta di eccesso catartico, trattenendo nel marmo la forma del dolore, mutandola in smorfia verosimile, simulata, accanto alla rappresentazione sempre iperrealistica della salvifica mano giunta dall’alto: la morte incontra l’angelo compassionevole, nella maestria scultorea, nella fissità di languori da estrema unzione. Così dunque l’ascetica faccenda riguardante santi e martiri, può essere riadattata a chiunque, a patto d’aver denaro sufficiente per potersi permettere un maestro dello scalpello che ne sappia rendere la veridicità. Muse pagane, trasformate in serafini e cherubini, in arcangeli e angeli – come a voler salvare la forma, l’ipocrisia d’andare a messa la domenica, nei primi banchi dei più devoti benefattori – s’aggirano tra quelle lapidi, in un sabba di rara bellezza. Difatti Staglieno è un teatro magniloquente, un luogo preposto agli sguardi ammirati, un mausoleo totalizzante, costruito con la preveggenza dell’inevitabile decadenza. Infatti: come può decadere ciò che si palesa già come decadente?

(foto di Giordano Bonelli)

Qui, con Decades quale prevedibile colonna sonora – ovvero l’ultima traccia del secondo e ultimo disco dei Joy Division – si compie una simbiosi estetica che paradossalmente consegna il cimitero monumentale di Staglieno all’iconografia seriale della postmodernità più popolare. I fatti: qualche settimana prima del suicidio di Ian Curtis, avvenuto nel maggio del 1980, il grafico della Factory Records Peter Saville, scelse alcuni scatti del cimitero di Staglieno, realizzati dal fotografo francese Bernard Pierre Wolff, per effigiare le copertine di Closer e di Love will tears usa part. Corrispondendo con inquietante preveggenza alle atmosfere nichiliste e decadenti dell’album, e ancor più alle sorti del ventitreenne cantante – ennesimo protomartire della generazione No-Future –. il direttore artistico fornì un pretesto affinché un bizzarro camposanto italiano, finisse serigrafato su poster e magliette ad uso giovani. Dentro alla candida cornice di Closer, spicca infatti una foto in bianco e nero della tomba della famiglia Appiani, caratterizzata da un emblematico movimento delle figure dinnanzi al catafalco; teatrale processo di rimembranze, inaugurato da un’austera madonna in posizione eretta a sinistra, fino al graduale ripiegamento velato nello strazio, ben evidenziato nell’ultima sagoma china a destra. Ancora più evocativa la citazione marmorea per il “12 di Love will tears us apart, laddove entro cornice nera, un angelo strafatto giace ripiegato sull’arca della tomba Ribaudo, nell’atto esausto di coprirsi il volto. D’altronde, come diceva Cioran? Alla minima contrarietà, e a maggior ragione al minimo dispiacere, bisogna precipitarsi nel cimitero più vicino, dispensatore immediato di una calma che si cercherebbe invano altrove. Un rimedio miracoloso, per una volta”.

Donato Novellini

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