StorieDiCalcio. Argentina 1978 e il palo “patriottico” di Mario Kempes

Mario Kempes nella finale di Argentina 1978

Prima di Mario Kempes fu il patriottismo di un palo a salvare gli argentini all’ultimo minuto dei tempi supplementari. Quel palo era lo spartiacque, non separava solo l’Olanda dalla vittoria, ma anche due mondi, la sera del 25 giugno del 1978 a Buenos Aires, stadio Monumental, finale della Coppa del Mondo. Oltre quel palo c’era una generazione torturata, sedata e buttata a mare dagli aeroplani; oltre quel palo c’era Jorge Videla e la sua “soluzione finale”; oltre quel palo c’era una atmosfera che ricordava le Olimpiadi a Berlino nel 1936; oltre quel palo solo alcuni giocatori svedesi, su tutti i convocati, non eseguirono l’ordine di giocare e basta, e il giorno dell’inaugurazione andarono a manifestare a Plaza de Mayo con le mamme e le nonne di quei ragazzi che sparivano nel grande labirinto del generale Videla e della sua giunta di assassini; oltre quel palo c’erano giocatori argentini come Alberto Tarantini che chiese conto a Videla dei suoi compagni desaparecidos e giocatori come  Daniel Passarella, capitano, e sostenitore della giunta che aveva a capo un grande dittatore ancora più ridicolo di quello chapliniano, magro e feroce, con i capelli stirati che cancellò trentamila persone. Del palo colpito da Rob Rensenbrink se ne è parlato almeno fino a quando non è arrivato Woody Allen con “Match Point”, perché è molto meglio avere fortuna che talento. «Quella palla non sarebbe mai potuta entrare. Non c’era spazio sufficiente. Sarebbe stato meglio se avessi sbagliato di tanto, almeno nessuno mi chiederebbe più di quel palo». Avesse segnato oggi racconteremmo un’altra storia, non avremmo avuto il racconto dell’Olanda bella e perdente. Anni dopo, Rensenbrinck, davanti a un plotone di microfoni, sostenne che il calcio totale – quello della sua squadra – aveva cominciato a rovinare il gioco, perché introdusse l’idea di velocità e di fisicità che ha portato all’esasperazione delle partite di oggi. Su quelle di ieri corre ancora Mario Kempes, che Eduardo Galeano ricorda come «un puledro inarrestabile che si mise in luce galoppando con la chioma al vento sopra il prato imbiancato di coriandoli». A decidere la sorte di Kempes, fu César Luis Menotti, allenatore della Selecciòn, comunista e intoccabile, che ha sempre sostenuto di aver resistito oltre lo schifo e la rappresentazione di questo: per i ragazzi che venivano torturati e che però gioivano quando vincevamo, e per quelli che son riusciti a scappare durante le vittorie della sua squadra. Quell’Argentina era forte anche se fu battuta dall’Italia di Enzo Bearzot con un gran gol di Roberto Bettega, che applicava Rilke: il futuro entra in noi molto prima che accada. Sulla squadra di Menotti pesa il controverso sei a zero sul Perù, che la portò in finale. Fuori dagli stadi si mostrava un paese artefatto, se ne occupava l’ammiraglio Carlos Alberto Lacoste – poi vicepresidente della Fifa – che spiegava che prima dei diritti civili veniva altro: «Se io vado in Europa o negli Stati Uniti che cosa mi impressiona soprattutto? Le grandi opere, i grandi aeroporti, le macchine fantastiche, le pasticcerie di lusso», e a chi dissentiva, Lacoste consigliava di stare attento alle bombe. Sotto tutto questo c’era una grande Olanda, che aveva come capitano Ruud Krol che poi passò al Napoli, era allenata da Ernst Happel, l’austriaco che aveva portato il Feyenoord a vincere la Coppa dei Campioni. Negli spogliatoi chiese: «signori, due punti», quel palo glieli negò. Presero tre gol, ma ci vollero i supplementari. Una squadra di reduci come base: Rep, Rensenbrink, Krol, Haan, Jansen e Neeskens, ai quali aggiunse i gemelli René e Willy De Kerkhof, Poortvliet e Brandts. Arbitrava un italiano, Sergio Gonella – scomparso qualche giorno fa –, e l’Olanda arrivava per il secondo mondiale di fila in finale, l’Argentina, invece, dopo anni aveva soddisfatto il desiderio di ospitare la fase finale della Coppa del Mondo. Cesar Menotti, uno da romanzo: riserva di Pelé, chimico, allenatore nomade, direttore di un giornale sportivo, capace di escludere Maradona «Es la amargura (amarezza) más grande de mi vida». Aveva una banda, ne fece una orchestra, e vinse. Fillol il portiere (ricordato come il secondo di Gatti, usava i numeri 5 e 7 sulla maglia); difesa con Passarella libero: uno dei più duri del calcio (spaccò due denti a Neeskens); Luis Galván e Olguín in marcatura; Tarantini fluidificante a sinistra, arruffone dal cuore d’oro; in mediana Ardíles: un matematico, elegante; Gallego come appoggio; esterni Bertoni e Ortíz; qualche volta Luque; su tutti: Mario Kempes quello che vinse la partita, un po’ Che Guevara un po’ Best. Due gol e mezzo in quella finale, perché il terzo di Bertoni è comunque suo. «Non sono stato il goleador della dittatura. È che godevo a buttarla dentro». Il primo lo inventò tra le gambe di Haan e le mani di Jongbloed. Il secondo fu davvero un gol di testardaggine, attraversò tutta la difesa olandese e tirò in porta, respinta del portiere sui piedi e facile deposito. Il terzo, scambio con Bertoni, carambola, rimando, e palla facile da spingere in rete. «Yo soy Kempes y nada mas». L’Argentina invece era molto altro, soprattutto dolore, che non passa. (Da Il Mattino)

@barbadilloit

Marco Ciriello

Marco Ciriello su Barbadillo.it

Exit mobile version