Libri. Perché non leggere “Aglio, olio e assassino” di Pino Imperatore

Quando Carlo Petrini si incazza contro l’ipernarrazione culinaria che dalla tivù ai giornali passando per i libri investe gli italiani: ha ragione. Da Manuel Vázquez Montalbán a Camilleri il cibo ormai è una protesi del racconto giallo, e quando pensi che Salvo Montalbano debba mettersi a dieta, arriva Pino Imperatore con “Aglio, olio e assassino” (DeA Planeta) dove l’assassino è del peperoncino. Per reggere un gioco del genere bisogna essere Lino Banfi –  giustamente fatto senatore da Checco Zalone – con un retroterra che dall’ avanspettacolo lo portò alle inquadrature di Dino Risi, che ne fece il grande commissario Lo Gatto. Imperatore, invece, mescola e male: cucina e omicidi, ironia di seconda mano (la finta confusione Mirra / Birra e il “mandato di cottura” per un serial killer che usa ingredienti culinari per arricchire le morti che causa), l’Arcangelo Gabriele in un carpiato che prova a riscrivere Dan Brown in napoletano, e Mergellina. In un sol colpo banalità del male e del bene nello stesso piatto. Proprio perché Napoli è la città più imprevedibile del pianeta, come viene scritto nel libro, non è solo difficile viverci, ma è anche difficile distinguere e raccontare, Imperatore confina il lettore in una catatonia da vecchio videogame di scarsa luminosità e cade sotto i colpi del folclore con dialoghi da sceneggiato sciatto, personaggi dalla domesticità mansueta che rimandano a mille altri già visti: dall’Ispettore Scapece (sic) che gira con una lente di ingrandimento, agli animatori della trattoria Parthenope (con Sirena). Manca di cattiveria, inconcludente.

*Da Il Messaggero

Marco Ciriello*

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