Artefatti. Alberto Burri, il metallurgico jungeriano alla fucina di Efesto

alberto-burri-722574Arte contemporanea? Puah! Roba da poveristi in Lamborghini, da sudditi della nefasta quanto appiccicosa moda americana: angioletti kitsch Mafia, graffiti solipsistici, loft bianco ben illuminato con tre cazzate appese, suppellettili dorati a circoscrivere brutture gratuite, tartuferie concettuali e pattume conservato in freezer/galleria.

Indaffarati nostalgici anni ’60 ipotizzano continuamente gemellaggi con Nuova York, che non avranno mai luogo; d’altronde perché scimmiottare? Perché cedere senza combattere, all’avanzata del brutto? utopie da scantinato, porno Calvinismo, edilizia compiaciuta del proprio orrore, in pratica tutto un lavorio da elettricisti, tappezzieri arredatori e scribi cresciuti a pan-brioches e Derrida. Occhialino tondo? Fialette di progressismo? Cravattino snob? Un attimino. L’impalcatura si regge sul niente, perché l’ideologia del progresso è effimera (Warhol docet), nient’altro che una posa per vendere plastica a vecchi ricchi rincoglioniti, per darsi un tono in società, dal mito fasullo del buon selvaggio alla produzione seriale di nani da giardino (per terrazze in centro).

Eppure, da De Chirico ai futuristi, da Piero Manzoni ad Alighiero Boetti, da Mario Sironi a Lucio Fontana, passando per il dandy marchigiano Gino De Dominicis, la migliore arte italiana del ‘900 ha sempre saputo aggirare, quando non palesemente sabotare, il progressismo parolaio, la retorica ciarliera del globalismo patinato, l’intruppamento forzato alla banalità ideologica del messaggio. Tant’è che i veri artisti, di solito, frequentano bar, osterie o galere, piuttosto di ristoranti iperbarici incubati in cartongesso laminato. Quelli falsi, invece, somigliano a manager, ai camerieri della crescita, più attenti a come vendersi che a cosa fare. Prendiamo ad esempio la vicenda di Alberto Burri.

Nato a Città di Castello, professione medico (scorbutico e orgoglioso, come Céline), mise la sua scienza al servizio dell’esercito italiano, ricavandone un prolungato soggiorno al campo di concentramento di Hereford (compound n. 4). La dura prigionia per non collaborazionisti – ovvero la segregazione punitiva e “rieducativa” per i fascisti che non rinnegarono nonostante la sconfitta militare, l’amor di Patria – lo vide in buona compagnia: Giuseppe Berto e Beppe Niccolai erano nel medesimo luogo. Gente cocciuta quella, che mangiava serpenti a colazione, mica pappamolli in deliquio per una barretta di cioccolata.

In Texas Burri scoprì l’arte, o meglio scelse il silenzio ostinato della pittura, assecondando così l’indole introversa che gli era propria. Le prime opere figurative, in gran parte distrutte o andate perdute, avevano quel gusto malinconico e arcigno della cartolina umbra, del souvenir paesaggistico premoderno, seppure già terroso e dal pigmento pastoso. Nature morte. Proprio quell’approccio al supporto, forzatamente o volutamente materico, può essere l’indizio di ciò che seguirà. Tipo i celeberrimi e all’epoca (anni ’50) scandalizzanti sacchi di iuta: superfici lacerate quelle, consunte, impercettibilmente trattate col colore, ma come lasciate a loro stesse nella sfaldata fatica di restare unite; maglie traforate, a brandelli anneriti, nella marginalità organica ormai priva di funzione e tuttavia poste in ostensione. Quadri francescani, moderni quanto atavici, rivoluzionari ma in fondo estremamente tradizionali.

Ora, la critica illuminata tende a svincolare tali opere dal contesto traumatico post-bellico, suggerendo un’interpretazione neutra o neutrale, probabilmente alimentata dalle reticenze dell’artista, il quale fu parco di chiacchiere e assai diffidente riguardo a “spiegazioni”. L’arte forse si fa pappa, da imboccare col cucchiaio? Giammai, eppure resta l’insoddisfazione interpretativa, nella resa corporativa all’informale, quella posa che vorrebbe risolvere tutto con l’emotività dello spettatore al cospetto dell’opera astratta. Quella della sensazione, del libero arbitrio, dell’emancipazione di chi osserva, finalmente libero di trarre piacere o disgusto a suo capriccio. Ebbene, con Burri non funziona così, non è Emilio Vedova, non è il giochetto stendhaliano del Rosso e del Nero. I sacchi, poi i legni, i cellotex, le combustioni, i cretti, ferri e catrami portano direttamente alla fucina di Efesto, a certe suggestioni alchemiche nell’utilizzo di neri, bianchi, rossi e ori, alla trasformazione demiurgica della materia, più che alla ruffiana adesione al club della contingenza.

Burri l’assenteista mondano, autarchico esploratore del sottosuolo arcaico, chiuso nelle tossiche brume della sua fornace nell’età della tecnica – fiamma ossidrica e aqua regis – lontano dai teatrini patinati e dalle tartine al salmone, ché poi son tutte accondiscendenze e cedimenti all’aria che tira. Alberto Burri metallurgico jungeriano, operatore al nero, alchimista e speleologo tellurico degli abissi, riemerso dai medesimi dopo aver lottato col drago primordiale, e a quel punto abilitato all’utilizzo aureo del colore. Oro Bisanzio, Giasone e gli argonauti, sole e fuoco sacro, Cristo Pantocratore, insomma tutt’altro dallo sterco del demonio mercantile ancora oggi imperante. Artista come artefice quindi, l’artista come artificiere, medico chirurgo con frattaglie di vita tra le mani, fuochista e assaltatore da fonderia, pioniere dell’ignoto sottostante. Fucili da caccia e sahariana, un tipo spigoloso ma non privo d’ironia, baffo arcitaliano e riottosità. Tant’è che Robert Rauschenberg, l’americano in gita scolastica, trasse ben più di un’ispirazione dalle opere del Tifernate, capitalizzandone al meglio le coraggiose tensioni infere.

Agarttha, il mondo capovolto, diventò così cretto gigante, sorta di Pompei calata giù a cemento in blocchi, ovvero quello che ammantò Gibellina, rasa al suolo dal terremoto del Belice nel 1968. Il “quadro” che diventa paesaggio di cordoglio, veste coprente sulle rovine, silenzio ancestrale che gli stolti chiameranno banalmente land-art. “Le parole non mi sono d’aiuto”, ebbe a dire il maestro, con ciò relegando questa ennesima analisi nel superfluo. Ineccepibile: l’arte non necessita di didascalie, queste sopraggiungono quando è il caso di camuffare un’impostura.

Donato Novellini

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