Artefatti. “Il colore del melograno”, la potente poetica anti-filmica di Paradzanov

colour-of-pomigranate-woman-with-chickenIl colore del melograno (Sayat Nova, 1968), viene catalogato a torto come film, essendo palesemente altro; eppure tecnicamente e formalmente di ciò si tratta, d’immagini semoventi impresse su pellicola, sonorizzate con musiche caucasiche e silenzi, a discapito di dialoghi superflui, crediti sovietici e cirillici titoli di coda. Menzione speciale nei dizionari cinematografici più eruditi, trofei dimenticati, targhe impolverate, resta la memoria della censura subita da Sergej Iosifovič Paradžanov, non in linea con le direttive realiste del regime comunista. Per comprendere l’origine aliena e ultramondana del lungometraggio più noto del regista armeno, non basterà riesumare il bolso lessico critico, il birignao corporativo della retorica spettacolare, nemmeno sarà utile il confronto dialettico con l’opera dell’amico Tarkovskij. Servono strumenti diversi, che esulano dalla narrazione di genere. Servono vie di fuga, codici etnografici e religiosi, in grado di tradurre quel “fare altro”, l’escamotage di chi utilizza il mezzo per un fine stupefacente, per raccontare gli abissi e le alture dell’imponderabile. Per dire di Dio e dell’uomo, delle loro reciproche assenze e ricerche, di quel tormento scandaloso che sta nel mezzo. Per filmare un anelito mistico, per documentare il rituale di privazione di un giovane trovatore, fino all’epilogo arcano della morte.

Qualcuno forse ricorderà il lungo mantra demolitorio che Carmelo Bene affidò a una intervista-monologo sul cinema, concessa a Sandro Veronesi nel 1995. In quelle parole, in quella phoné incantatoria, si comprendeva l’avversione al superfluo, alla rappresentazione ruffiana a favore di cinepresa; idiosincrasia nei confronti della pantomima riversata in celluloide, in filtri obbligati alla verosimiglianza, arrivando a fare tabula rasa di maestri quali Fellini, Pasolini, Buñuel, Godard, per non parlare dell’armamentario stucchevole del cartonato hollywoodiano; In quell’occasione C. B. stigmatizzò la schiavitù al mezzo tecnico, utile per simulazioni prescritte in copula, tutti quegli onorari da tributare al “messaggio”, alla trama (come l’inutilità del romanzo contemporaneo, d’altronde), un lavorio privo di grazia, fattosi mero autocompiacimento del set. Il set del set. D’altronde poteva permetterselo, reduce com’era da folli depistaggi quali Nostra signora dei turchi, Salomè, Capricci e via dicendo. Donde trasse ispirazione l’anti-maestro? Assieme a Bene, certe cose di Derek Jarman, altre di Jodorowsky, lambiscono l’inarrivabile alterità di Sayat Nova, fermandosi però, ancora, nei recintati possedimenti umani.

Spaziando altrove, “Il film – non film” di Paradžanov, potrebbe essere accostato in ambito musicale a L’era del cinghiale bianco, disco di Franco Battiato risalente al 1979: medesimo afflato atavico, stesso lucore orientale, ripulito da scorie nostalgiche, esotiche, romantiche; oppure a certe indagini sulle simbologie tradizionali, portate avanti da Guénon, Evola, Eliade, Schuon. E ancora: la spiazzante conversione a Bisanzio del dadaista Hugo Ball, uno che passò dal nonsense delle parole in libertà, ai codici miniati del monte Athos. Difatti la pellicola si caratterizza per una visionaria trasposizione ritualistica, quasi pittorica; per una destabilizzante cronaca ipnagogica, della vita scandita in passaggi, quella di un poeta monaco e pellegrino reale in un tempo non datato, forse addirittura in assenza di Crono, atemporale; Sayat Nova, tuttavia, contiene anche elementi avanguardistici, ma come posizionati con discrezione in un ordine arcaico. La messa in mosaico: vestizione e spogliazione, caducei e scettri che cadono al suolo, sul marmo freddo delle lapidi regali. C’è un fattore surrealista, un accumulo barocco di allegorie, evidente soprattutto nei colori e negli accostamenti apparentemente incongrui degli oggetti, tuttavia Inabissato nella coppa di sangue sacrificale, stemperato in supremazia mistica, in pioggia che scivola sul capitello scolpito, lasciando come traccia solo il velo umido del passaggio.

Così medioevo e tempi moderni si ricongiungono nella terra di mezzo, in emblemi sacrali e cerimonie da consumare, riaprendo libri dati per persi o distrutti, accettando il filo della spada, così come la perfezione verginea della rosa bianca. Viene in mente un altro grande artista, pure lui boicottato e arrestato dalle autorità sovietiche, ovvero il pittore suprematista Kazimir Malevič. Nei dipinti essenziali del genio ucraino, emerge tutta la forza delle forme pure, la plasticità anti-rappresentativa, il rigore sensoriale di segni traducibili con immediatezza, in quanto altamente simbolici e perciò da sempre presenti nel tracciato mnemonico umano: il quadrato, il cerchio, la croce. Tant’è che come Paradžanov, Malevič concluse le sue ricerche espressive cercando sempre l’assoluto, quindi trovandolo a ritroso, nei costumi tradizionali dei contadini ucraini e nelle sacre icone ortodosse.

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Il colore del melograno è uno stratagemma traduttivo, allusione per non dire Rosso. Un colore diverso da quello della bandiera di partito. Pigmento sacrificale e al contempo lussurioso. Mestruo cremisi della grande madre, vino scarlatto dell’agnello divino, la porpora del potere e la filigrana d’arazzo, tra gli ori rubino d’anello al dito, frutto ematico dell’abbondanza in grani; martirio cristiano in terra di dervisci roteanti e Rubedo nel compimento dell’Opera. Per questo la narrazione circolare – l’eterno fanciullo che osserva se stesso adulto morire, l’adulto morente che vede se stesso fanciullo correre lontano – resta evocazione sottotraccia, camuffata dal nero della tunica monastica, buia terra arata, elsa ferrosa e muraglia oscura di fortezza; quindi dal bianco stordente di lenzuola, garze, bende, veli, angeliche vesti. Putrefazione e verginità. Emblematica in tal senso la “recita” della morte di Sayat Nova: dopo aver ricevuto il sangue da una brocca, versatogli sul petto da una musa – altera madre natura – il trovatore s’accascia a terra, mentre un manovale chiude la breccia mondana con degli otri, in lavoro di calcina. Biancovestito tra una moltitudine di ceri rossi accesi, il nero abito talare aperto a croce accanto, il poeta trapassa, corpo terreno preso d’assalto da un impazzimento di galline e piume al vento. Iconostasi e flusso di coscienza, fili riannodati tra oriente e occidente, tra folklore e sapienza, Il colore del melograno esce così dal tempo, s’allontana da noi spettatori, aprendo altresì porte cardiovascolari: “Il cuore dell’uomo non è infatti il vaso in cui la sua vita si elabora continuamente con il suo sangue?” – René Guénon, Simboli della scienza sacra.

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Donato Novellini

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