Ritratti. Il decennale della morte di Solženicyn, il premio Nobel che rivelò i gulag al mondo

Solženicyn
Solženicyn

Aleksandr Solženicyn (1918-2008)

Il 2018 è il suo anno. Dieci dalla morte e cento dalla nascita. Mosca gli innalzerà un monumento, ma già sono iniziate le contestazioni. Il nome dell’autore di “Arcipelago Gulag” risulta ancora scomodo: così c’è chi ha protestato, come i ‘giovani comunisti rivoluzionari’ che hanno affisso, lo scorso novembre, dei manifesti con una foto modificata di Solženicyn con in testa un cappello nazista. Uno dei giovani bolscevichi ha affermando che “commemorare un antisemita, nazista e nazionalista come Solženicyn non è altro che sputare in faccia a chi ha lottato contro il nazismo, cioè in faccia al popolo sovietico”. Dunque, mentre la nuova Russia si prepara a celebrare degnamente il centenario della nascita del suo grande scrittore e dissidente, ancora i comunisti nostalgici dei gulag ne oltraggiano la memoria e certo continueranno.

Con altrettanta sicurezza si commemorerà il duplice anniversario in diverse parti del mondo. Ciò che non succederà sarà una lettura uniforme del personaggio, sul quale già si polemizzò estesamente stando egli in vita.  Il centenario della  nascita (e decennale della morte) dello scrittore russo sarà un’eccellente occasione per verificarne vigenza ed attualità di idee, studiarle, rivisitarle, sottometterle a dibattito e discussione, con particolare  attenzione alla sua visione “profetica” del mondo ed alla vigenza della  sua predicazione sulla “autolimitazione” come mezzo per correggere eccessi d’ogni tipo. Il politologo statunitense Daniel J. Mahoney, premio Raymond Aron 1999, afferma che Solženicyn non confonde progresso morale con sviluppo tecnologico, e che “deve essere letto alla luce delle tradizioni letterarie ed intellettuali russe ed alla luce di un pensiero politico che ha avuto inizio con  Platone ed Aristotele ed è proseguito fino a Montesquieu, Burke e Tocqueville”. Per la sua esperienza e la profonda analisi di un secolo che ha sofferto con le ideologie, “il suo messaggio nulla ha perso di attualità per un’umanità che continua a cercare un senso alla vita in società”.

All’indomani della sua morte, il 10 agosto 2008, Mario Vargas Llosa scriveva ne “El País” di Madrid, sotto il titolo “El hombre que nos describió el infierno. Archipiélago Gulag es una demostración de que, aun en medio de la barbarie, lo más noble del ser humano puede sobrevivir, defenderse y protestar”.

Continuava lo scrittore peruviano:

“Come nell’ultima tappa della sua vita si dedicó a fustigare la decadenza dell’Occidente ed a difendere un nazionalismo russo basato sulla tradizione e sul cristianesimo ortodosso, egli era divenuto una figura scomoda. Ora che un attacco cardiaco ha spento la sua vita si può formulare un giudizio più sereno su questo intellettuale e profeta moderno, forse lo scrittore che più tumulti e controversie ha provocato nel ventesimo secolo. Diciamo, in primo luogo, quanto straordinario appaia che il suo cuore abbia resistito fino agli 89 anni,  alle indescrivibili sofferenze che dovette affrontare, la guerra, le torture,  la detenzione ed il confino di  lunghi anni, il cancro, la persecuzione sistematica, la censura, le campagne di calunnia e discredito, l’espulsione infamante e la privazione della cittadinanza, il sequestro dei suoi manoscritti, l’esilio; è un miracolo della volontà imponendosi alla carne miserabile, una prova inequivocabile che la potenza dello  spirito per fronteggiare le avversità non è solo patrimonio di quei mistici ed eroi che celebrano le religioni ed inventano le saghe ed i cantori delle gesta epiche, giacchè s’incarna, secolo dopo secolo, in alcune normali figure mortali, simili ad altre comuni persone”. 

Non fu Solženicyn un grande creatore di letteratura, come lo furono i suoi connazionali Tolstoi, Dostoievski, Puškin, Gogol’, Čechov, Pasternak, ma la sua opera permarrà come la più lacerante testimonianza dei deliri ideologici e degli orrori  totalitari del XX secolo, delle ingiustizie e crimini dei quali furono vittime molti milioni di persone innocenti, un numero talmente sterminato da rendere quasi astratti timor panico, dolore incommensurabile, umiliazioni, tormenti psicologici e fisici, a causa della demenza dispotica di Stalin e del sistema marxista-leninista che gli consentì di convertirsi in uno dei più crudeli genocidi della storia.

Arcipelago Gulag, in particolare, è più che un capolavoro letterario: è la dimostrazione che, pur immerso nelle peggiori farneticazioni pseudo ideologiche e nella ferocia più irrazionale e criminale, ciò che esiste di nobile e degno nell’essere umano può sopravvivere, difendersi, testimoniare e persin protestare. Che si può resistere all’impero del male e che se una fiammella di decenza e pulizia morale non si spegne alla lunga finirà col prevalere sul fanatismo, l’ignoranza ottusa, i vaneggiamenti autoritari, l’ansia di opprimere, di ferire, di uccidere, di sterminare.

Non si tratta di un libro facile, è prolisso, trasmette un enorme sconforto per la sporcizia etica e la stupidità descritte, che precedono i crimini politici, le delazioni, le crudeltà, le torture sadiche; gli estremi dell’ignominia che avvolgono vittime e carnefici, la paura che contagia l’aria che si respira. Non è letteratura, ma vita comunque vissuta, giorno dopo giorno, anno dopo anno, nell’abbandono totale, senza quasi speranza che qualcosa succeda per porre un punto finale ad un’agonia insopportabile.

Secondo Vargas Llosa:

“C’era in Solženicyn la stoffa con la quale furono concepiti i profeti dell’Antico Testamento, ai quali anche il suo fisico terminò con sembrare: una granitica convinzione che lo proteggeva contro la sofferenza, un amore per la verità e la libertà che lo rendeva invulnerabile a qualsiasi ipotesi di abdicazione o ricatto. Fu uno di quegli esseri incorruttibili che ci spaventano perché la loro sola presenza rivela le nostre debolezze. Quando le circostanze lo obbligarono a lasciare il suo amato Paese – perché incredibilmente egli sempre amò la Russia, con la innocenza e la ostinazione di un bambino, nonostante tutte le prove che gli inflisse – credette che nel mondo occidentale, ove arrivava, di veder confermato tutto ciò che, nell’isolamento del gulag e della tundra siberiana, aveva sognato: una società nella quale la libertà fosse tanto grande come la responsabilità dei cittadini, dove lo spirito prevalesse sulla materia, la cultura padroneggiasse gli istinti e la religione umanizzasse l’individuo e fomentasse la solidarietà e la condotta morale”.

La sua percezione dell’Occidente era, invece, divenuta ben presto desolante:

“A che serviva la democrazia alle privilegiate genti d’Occidente? Per accumulare ricchezze e sprecarle in frivolezze, lussi, edonismo e sensualità? Per alimentare il cinismo, l’egoismo, il materialismo, per dar le spalle all’etica, allo spirito, per  ignorare i pericoli che minacciavano quei valori civici, politici e morali che avevano portato la prosperità, la legalità ed il potere all’Occidente? Da allora egli iniziò a tuonare, con accenti da Zeus furioso, contro la degenerazione morale e politica delle società  occidentali ed a rinchiudersi in quell’idea utopica che la Russia fosse diversa, che dalla stessa, nonostante il comunismo, e forse, proprio a causa di quegli 80 anni di espiazione politica e sociale, potesse giungere, con la caduta del regime sovietico, quell’ideale che  combinasse  il nazionalismo e la democrazia, la vita spirituale ed il progresso materiale, la tradizione e la modernità, la cultura e la fede”. (https://elpais.com/diario/2008/08/10/opinion/1218319211_850215.html).

Ripercorriamo brevemente alcune tappe della sua straordinaria avventura umana e letteraria.

“Aleksandr Isaevič Solženicyn nacque a Kislovodsk nell’11 dicembre 1918 in una famiglia di origine cosacco-ucraina, figlio di una vedova, Taisia Ščerbak Solženicyna, il cui padre possedeva alcune proprietà nel Kurban, a nord delle colline del Caucaso. Durante la prima guerra mondiale Taisia incontrò Isaakij Solženicyn, un giovane ufficiale dell’esercito, anche lui originario del Caucaso. Nel 1918 Taisia rimase incinta; tre mesi dopo Isaakij fu ucciso in un incidente di caccia. Aleksandr crebbe in povertà con la madre ed una zia a Rostov; i suoi primi anni di vita coincidono con la guerra civile russa. Il nonno materno fu arrestato dalla GPU (la polizia politica) nel 1930, quando le proprietà di famiglia furono espropriate, e scomparve per sempre durante la detenzione. Per la famiglia di Solženicyn furono anni particolarmente difficili.

Nel 1940 si sposò civilmente con la prima moglie Nataša Resetovskaja; in seguito i due divorziarono e Solženicyn si sposò una seconda volta, con rito religioso, nel 1973 con Natalja Svetlova, da cui ebbe tre figli. Costretto ad abbandonare gli studi di Matematica  dopo l’invasione tedesca, partì volontario per la guerra. Ammesso alla scuola per ufficiali, divenne tenente d’artiglieria. Combatté successivamente con valore nella battaglia del saliente di Kursk, sul Dnepr ed in Prussia Orientale, guadagnandosi sul campo il grado di capitano. Fu decorato due volte e proposto per l’Ordine della Bandiera Rossa, per avere salvato i suoi uomini in una situazione disperata durante una controffensiva germanica il 27 gennaio 1945. Il 9 febbraio del 1945 fu arrestato per aver criticato Stalin in una lettera privata ad un amico. Venne condannato ad otto anni di campo di lavoro nei gulag e, scontata la pena, al confino perpetuo”. 

Dirà Solženicyn a proposito dei gulag, comparati ai peggiori lager tedeschi, sottolineandone l’unica differenza fondamentale:  « Per fare le camere a gas, ci mancava il gas ».

“Solženicyn scontò la prima parte della condanna in un campo di lavoro correzionale, uno speciale centro per le ricerche scientifiche. Col passare del tempo scomparve totalmente in lui ogni ombra di adesione all’ideologia comunista. Nel 1950, ormai totalmente disilluso sulla natura del regime sovietico, fu trasferito in un campo speciale per i prigionieri politici, a seguito della sua rinuncia a collaborare ai progetti del NKVD, il Commissariato del Popolo per gli Affari Interni dell’URSS. Durante la sua permanenza nel campo speciale della città di Ekibastuz, in Kazakistan, lavorò come minatore, muratore ed operaio in una fonderia; da quell’esperienza trarrà “Una giornata di Ivan Denisovič”. Negli anni di gulag, non potendo scrivere, compose centinaia di versi imparandoli a memoria e recitandoli con l’aiuto di un rosario fatto da alcuni prigionieri lituani con cento piccoli grani di pane ammollato e strizzato. 

Dal marzo 1953 Solženicyn inizia il suo esilio nello sperduto villaggio di Kok Terek, nella steppa del Kazakistan. Fu appunto durante questa decade di prigionia ed esilio che Solženicyn abbandonò il marxismo per posizioni filosofiche diverse ed una fede religiosa, diventando un convinto cristiano ortodosso; questo cambiamento trova un parallelo in Dostoevskij e nella sua ricerca delle fede durante il periodo di carcere trascorso in Siberia, un centinaio di anni prima”.

Una giornata di Ivan Denisovič è il romanzo di Aleksandr Solženicyn, pubblicato il 18 novembre 1962 sulla rivista letteraria Novyj Mir, che lo rivelò alla letteratura, alla storia del pensiero, alla riflessione. La pubblicazione dell’opera – un resoconto crudo e realistico della repressione ed oppressione stalinista – costituì un evento straordinario per la storia dell’URSS, rompendo la tradizione consolidata delle manipolazioni del realismo socialista. Fu Nikita Kruscev, in persona, a dare il proprio assenso alla sua diffusione, difendendolo di fronte al Presidium del Politburo, per dare forza alla campagna di destalinizzazione, seguita al XX Congresso del 1956. Ciò che aveva colpito Kruscev era la forza accusatoria dell’opera di Solženicyn contro i campi staliniani: l’anno prima egli aveva deciso l’espulsione della mummia di Stalin dal mausoleo sulla Piazza Rossa. Lo scritto comparve con un editing concordato col direttore, in diversi punti modificato ed attenuato, per questioni di censura. La pubblicazione del primo romanzo sui lager staliniani ebbe un effetto devastante, svelando al popolo russo ed al mondo la verità, fino ad allora occultata, sui campi di lavoro coatto dove milioni di esseri umani avevano sofferto pene indicibili ed erano morti. La tiratura iniziale di centomila copie della rivista andò esaurita in poche ore. Il romanzo, quasi una non-fiction novel alla Capote, racconta la brutale esistenza quotidiana nel gulag di un prigioniero, detenuto politico, negli anni Cinquanta. L’idea dell’Autore, che fa da sfondo a tutto il racconto, è quella di mostrare come sia possibile per l’uomo conservare intatta la propria dignità umana, pur essendo immerso in un “inferno”.

Negli anni ‘60 Solženicyn continua segretamente il febbrile lavoro al monumentale saggio di inchiesta narrativa “Arcipelago Gulag”. Il sequestro di una delle due sole copie del manoscritto da parte del KGB (seguito dal suicidio della sua assistente che aveva confessato, sotto tortura, il luogo dove era nascosto) lo fece inizialmente disperare, ma gradualmente l’essere libero dalla pretesa di essere uno scrittore “ufficialmente acclamato”( dopo “Una giornata di Ivan Denisovič”) lo fece avvicinare alla sua seconda natura, la quale fu sempre più rilevante, di scrittore e testimone della resistenza russa al totalitarismo comunista marxista-leninista. Sfuggito ad un tentativo di avvelenamento da parte degli organi di sicurezza nel 1968, nel 1970 Solženicyn fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura. A quel tempo egli non poté ricevere personalmente il premio a Stoccolma, perché temeva di non poter più ritornare dalla sua famiglia in Unione Sovietica una volta andato in Svezia. 

Il 13 febbraio 1974 Solženicyn fu, comunque, deportato dall’URSS – sempre più statica e deteriorata nelle mani dell’autocrate Breznev – in Germania Ovest e privato della cittadinanza sovietica. Il KGB trovò il manoscritto della prima parte di Arcipelago Gulag. Poco prima che venisse arrestato e mandato in esilio, Solženicyn terminò la sua opera più significativa. IL PCI di Berlinguer, fedele alla sua robusta doppiezza gesuitica, scrisse allora su “L’Unità”, colla penna di Giorgio Napolitano, il 20 febbraio 1974, che la vicenda era “indubbiamente significativa e preoccupante”, ma avallò sostanzialmente le accuse del regime di Mosca e considerò in modo tendenzialmente positivo, pur se con qualche distinguo, la scelta di esiliare lo scrittore.

‘Il suo opus magnum, “Arcipelago Gulag”, è un saggio di inchiesta narrativa scritto da Solženicyn sul sistema dei campi di lavoro forzato nell’URSS. Gugag è l’acronimo russo di Direzione Centrale dei Campi di Lavoro che dà il nome al sistema di coercizione atto a sopprimere la libertà di oppositori e critici del sistema, secondo la propaganda tacciati di essere i “nemici” del comunismo ed  individui da “rieducare”. Poggiando su testimoni oculari e materiale primario di ricerca, l’autore vi riversò anche la propria esperienza di prigioniero politico nei campi di lavoro forzato; egli vi percorre l’iter carcerario: dall’istruttoria ai lager speciali, dall’arresto fino al termine della pena scontata. “Arcipelago Gulag” ebbe grande risonanza nell’opinione pubblica internazionale per aver fornito il resoconto più radicale e circostanziato dell’URSS post-rivoluzionaria: Solženicyn vi dimostra che il regime comunista poteva governare sui popoli oppressi dell’Unione Sovietica solo con la minaccia dell’imprigionamento, ma pure che l’economia stessa del Paese dipendeva dalla produttività dei campi di lavoro forzato. L’opera fu pubblicata in Occidente nel 1973 e circolò clandestinamente – in scarni  “samizda” (a lungo il popolo sovietico ha rischiato una pena detentiva per il semplice fatto di leggere Solženicyn) –  fino al 1989, quando fece la sua apparizione sulla rivista letteraria “Novyj Mir”, in forma ridotta. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’opera fu pubblicata integralmente; nel 2009 è divenuta, anzi, una lettura obbligatoria nelle scuole superiori russe’.

 (Da: https://academyofideas.com/2017/04/gulag-archipelago-aleksandr-solzhenitsyn; https://it.wikipedia.org/wiki/Arcipelago_Gulag)

Solženicyn probabilmente s’ispirò a Memorie dalla casa dei morti, un romanzo semi-autobiografico scritto da Fëdor Dostoevskij e pubblicato tra il 1860 e il 1862, nel quale è ritratta  la vita dei condannati in un campo di prigionia siberiano. L’esperienza diretta (Dostoevskij aveva scontato quattro anni di condanna in Siberia per il suo coinvolgimento nel Circolo Petrashevsky, un gruppo di oppositori) gli aveva permesso di ritrarre con efficacia ed autenticità le condizioni della vita carceraria e le personalità dei condannati.

Solženicyn descrisse magistralmente il terrore umano organizzato ed eseguito alla perfezione nei campi di concentramento bolscevichi, la terribile ansietà dell’essere umano di fronte alla perdita totale d’ogni libertà, anche di riuscire a pensare lucidamente. Ci sono momenti della storia nei quali l’essere umano si comporta in modo particolarmente spregevole. Quando lo fa organizzato in un sistema ben strutturato, come durante il potere bolscevico, sofferenza e terrore diventano quotidiani, “normali”, smisurati, pressoché infiniti. Nessuno ha saputo descriverli e rivelarli al mondo come Solženicyn, che ebbe la sorte di poterli poi raccontare. Senza mai peli sulla lingua.

Lo fece anche in Spagna, nel marzo 1976 – dove Francisco Franco era deceduto il 20 di  novembre dell’anno precedente e seguiva intatta la struttura del vecchio Stato autoritario – cosa che a molti non piacque:

‘I vostri circoli progressisti  si compiacciono in definire il regime esistente come una “dittatura”. Io, in cambio, son dieci giorni che sto viaggiando per la Spagna, muovendomi in assoluto incognito. Osservo come vive la gente, la guardo con i miei propri occhi stupiti e mi chiedo: sapete voi che cosa vuol dire questa parola, che cosa si nasconde dietro tale termine? No, i vostri progressisti possono usare la parola che preferiscono, ma “dittadura” no. Se noi avessimo le libertà che voi avete, rimarremmo con la bocca aperta, esclamaremmo che è un qualcosa mai visto! La crisi della civiltà occidentale non è politica, ma spirituale. La stessa contrapposizione Est-Ovest si diluisce, giacchè ambo i mondi sono sommersi dal materialismo. Tuttavia, esiste una differenza tra gli stessi. Solo in uno – in Russia, in Cina, in Cambogia, in Vietnam, nell’Europa orientale – esiste un totalitarismo assoluto, che pretende assorbire tutta la vita dell’uomo: non si può credere o non credere, non si può  pensare o non pensare, non si può avere una  famiglia… Tra questo totalitarismo e qualsiasi altra limitazione di libertà esiste molto di più di una differenza di grado. Vi è una differenza assoluta’. 

(https://www.actuall.com/criterio/democracia/archipielago-gulag-solzhenitsyn-dijo-no-al-rey).

Per evitare strumentalizzazioni, lo scrittore declinò, in quell’occasione, l’invito ad incontrarsi con il Re Juan Carlos.

Dopo qualche tempo in Svizzera, Solženicyn si trasferì negli Stati Uniti, invitato dalla Stanford University di  Palo Alto, California. Quindi, ansioso di basse temperature, di neve, a Cavendish, nel Vermont, a partire dal 1976. Nel 1978 gli venne conferita la laurea ad honorem in letteratura dalla Harvard University, ove tenne un famoso discorso di condanna della cultura occidentale. Nonostante l’entusiasmo iniziale  con cui fu accolto negli Stati Uniti, seguito dal rispetto per la sua vita privata, Solženicyn non si sentì mai a casa fuori dalla madrepatria. Lui sdegnò l’idea di diventare una star mediatica, di addolcire le sue idee ed il suo modo di parlare per adeguarsi al linguaggio televisivo. Gli avvertimenti di Solženicyn sul pericolo di aggressioni comuniste e sull’indebolimento della tempra morale dell’occidente furono generalmente ben accolti dagli ambienti conservatori e ben si adattavano alla durezza della politica estera di Reagan, ma liberals e laicisti erano sempre più critici. Nel 1990 la cittadinanza russa di Solženicyn fu ripristinata e nel 1994 egli ritornò in Russia, dopo la dissoluzione dell’URSS,  con la  moglie Natalia. I loro figli restarono negli Stati Uniti.  Da quel momento Solženicyn ha vissuto con la moglie in una dacia a Troice-Lykovo ad ovest di Mosca. Nei suoi scritti politici più recenti, quali “ Come ricostruire la Russia? (1990) e “Russia under Avalanche” (1998), egli  critica gli eccessi oligarchici della nuova Russia, opponendosi, comunque, a qualsiasi nostalgia per il regime marxista-leninista. Rifiuta nel 1998 il cavalierato del restaurato Ordine di Sant’Andrea. Difende, inoltre, il sentimento patriottico, manifesta preoccupazione per il destino dei venticinque milioni di russi residenti negli Stati dell’ex Unione Sovietica, che aveva ereditato, nella sostanza, il Rossiskaya Imperia degli zar. Chiede inoltre, con insistenza, che venga protetto il carattere nazionale della Chiesa Ortodossa autocefala. Finalmente, per Solženicyn le scelte “imperiali” di Vladímir Putin avevano fortunatamente ridato alla Santa Russia il rango di superpotenza perso nell’epoca di Eltsin.

Solženicyn morì di infarto il 3 agosto 2008, a 89 anni. Il servizio funebre si svolse nel Monastero di Donskoy di Mosca il 6 agosto 2008. Egli fu sepolto lo stesso giorno nel luogo che si era scelto nel cimitero del Monastero, con solenni funerali di Stato.

(Da:https://it.wikipedia.org/wiki/Aleksandr_Isaevi%C4%8D_Sol%C5%BEenicynhttp://www.libertadyprogresonline.org/2017/08/22/centenario-del-nacimiento-de-alexander-solzhenitsyn-un-luchador-por-la-libertad;https://www.britannica.com/biography/Aleksandr-Solzhenitsyn).

 

La tomba di  Solzenicyn

Certa storiografia giustifica gli eccessi della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, sfociata in un disumano totalitarismo, come strettamente connessa alla storia della Russia degli zar, specialmente analizzado le figure di autocrati spietati come Ivan il Terribile e  Piero il Grande. Per Solženicyn ciò è fondamentalmente sbagliato. Egli sostiene che la Russia zarista non aveva le stesse tendenze violente dell’URSS, sottolineando che nella Russia imperiale la censura non era praticata se non in rari casi; che i prigionieri politici obbligati al lavoro forzato erano un decimillesimo rispetto a quelli dell’Unione Sovietica; che il servizio segreto dello zar era presente in sole tre grandi città, non in tutta la nazione.

La violenza e crudeltà del regime comunista non erano in nessun modo comparabili con quelle degli zar. È una forzatura giustificare la catastrofe russa del XX secolo con le barbarie del XVI e XVIII secolo, quando ci sono molti altri esempi di violenza che hanno ispirato, invece, i bolscevichi, specialmente quello dei giacobini durante il ‘Terrore’ nella Francia rivoluzionaria. Una volta al potere, il comunismo tentò di cancellare ogni nazione, distruggendo la sua cultura e reprimendo ogni minimo dissenso, elevando il sospetto a delitto grave. Secondo Solženicyn, la cultura ed il popolo russo non erano dominanti della cultura nazionale dell’Unione Sovietica, dove non c’era una vera e propria cultura predominante, perché oppressa in favore della cultura ateistica marxista-leninista. Fin dall’ottobre 1917, del resto, Lenin aveva minacciato di schiacciare tutti gli ‘insetti’ che avessero osato opporsi al dominio assoluto dei bolscevichi.

La vittoria della Rivoluzione assunse sin dall’inizio il carattere brutale di una dittatura spietata, l’unico comunismo possibile, in fondo. Atrocità, violenza, torture non erano sconosciute, ma neppure congenite all’anima russa. E nulla fu più disumano di una prigione staliniana. Come scrisse Solženicyn, una donna poteva, ad esempio, essere costretta a stare seduta su di uno sgabello per sei giorni e sei notti, senza interruzione, senza potersi mai alzare, né cadere, né dormire. O ad un accusato poteva essere fatta ingoiare, a forza, acqua salata e poi che gli venisse negata acqua durante una settimana. Ognuno avrebbe poi confessato o ammesso qualsiasi cosa.

Solženicyn è un pensatore che, partendo da una interpretazione cristiana della storia, ha individuato nel materialismo ateo dell’epoca moderna la matrice comune di una crisi antropologica che ha investito tanto il mondo comunista quanto quello occidentale. L’opera dello scrittore russo ed il suo pensiero non sono pertanto riconducibili al semplice anticomunismo, ma hanno radici più profonde ed ammoniscono sulle conseguenze della scelta di escludere Dio come riferimento ideale dalla dimensione privata e pubblica:

‘Per circa 50 anni ho lavorato sulla storia della nostra Rivoluzione, nel frattempo ho letto centinaia di libri, raccolto centinaia di testimonianze, ed ho io stesso contribuito con otto volumi allo sforzo di rimuovere le macerie lasciate da quel terremoto. Ma se mi chiedessero oggi di esprimere, nella maniera più concisa possibile, la causa principale della disastrosa rivoluzione che ha ingoiato qualcosa come 60 milioni di persone, io non potrei trovare un modo migliore di rispondere se non ripetendo: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, ecco perché tutto questo è accaduto”’. 

(https://www.riscossacristiana.it/solzenicyn-la-grande-lezione-di-uno-scrittore-cristiano).

L’uomo era certamente sensibile, ma duro, complesso, scorbutico (come lo è sovente chi è vissuto per anni in penosa detenzione), con contraddizioni. A lungo era stato un marxista ed un leninista convinto (il miscuglio di «un marxista e di un democratico», dirà di sé più tardi). Aveva, infine, preso posizioni imbarazzanti, per il corrente politically correct, appoggiando Putin, manifestando, secondo alcuni, un latente antisemitismo, ed un nazionalismo esasperato, la richiesta di reintrodurre la pena di morte per i reati di terrorismo. Un autentico reazionario forcaiolo, insomma.

Come scrittore, basterebbe Ivan Denisovič  per avere il diritto ad essere considerato un grande, al di là di ogni etichetta, ideologia e frontiera. Pur trattandosi, la sua, di una prosa densa, aspra, magmatica, talora ripetitiva ed un po’ noiosa. Ed ancor più Arcipelago Gulag e talune opere successive, romanzi e saggi storici robusti, profondi, ben documentati, di ampio respiro. In italiano molte traduzioni sono di Einaudi, accurate formalmente, ma talora eseguite su testi ancora sovietici, non su quelli rivisti ed autorizzati dal loro autore. Esempio di postumo “berlinguerismo” ipocrita?

 “Finché non sono venuto io stesso in Occidente ed ho passato anni guardandomi intorno, non avevo mai immaginato come un estremo degrado abbia fatto un mondo senza volontà, un mondo gradualmente pietrificato di fronte al pericolo che deve affrontare. Tutti noi stiamo sull’orlo di un grande cataclisma storico, un’inondazione che ingoierà le civiltà e cambierà le epoche”. (Discorso alla BBC,1979).

Solženicyn descrisse i problemi sia dell’oriente che dell’occidente, riferendosi alla calamità di un’autonoma, irreligiosa coscienza umanistica:

“Ha fatto un uomo su misura di tutte le cose sulla terra, uomo imperfetto, che non è mai libero da orgoglio, interesse personale, invidia, vanità e da dozzine di altri difetti. Ora stiamo pagando gli errori che non si sono valutati correttamente all’inizio del viaggio. Sulla direzione dalla rinascita ai nostri giorni abbiamo arricchito la nostra esperienza, ma abbiamo perso il concetto di un’entità completa suprema che ha trattenuto le nostre passioni e la nostra irresponsabilità”. (Discorso di Harvard, 1978).

Nell’ultima tappa della vita, come accennato, Aleksandr Solženicyn scagliava maledizioni bibliche contro la decadenza dell’Occidente e difendeva l’atavico nazionalismo russo, fondato sulla tradizione ed il cristianesimo ortodosso, divenendo per non pochi una figura ostica, addirittura antipatica, e per questo quasi non si parlava più di lui.

* già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay

@barbadilloit

Gianni Marocco*

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