Il punto. Perché il ricordo della semplicità di Astori unisce l’Italia (non solo del pallone)

Davide Astori, calciatore della Fiorentina e della Nazionale tragicamente scomparso
Davide Astori, calciatore della Fiorentina e della Nazionale tragicamente scomparso

Dal silenzio di Wembley ai cori di Piazza Santa Croce: ecco la nazionale del dolore, che annovera vecchi e nuovi calciatori, allenatori e presidenti che si mischiano insieme ai loro tifosi, piangendo per Davide Astori: in un coro da tragedia greca. La sua morte è un tackle, ha sorpreso e anticipato tutti: in campo come nella vita. Senza commettere falli, senza sguaiataggini né irruenza: elegante, silenzioso, è scivolato dal sonno al gelo. E intorno: un corto circuito che dai cancelli del suo stadio l’Artemio Franchi – dove più ha aderito alla vita: giocando – arriva al sagrato della chiesa per l’ultimo saluto, da Coverciano raggiunge ogni spogliatoio, curva, campo. Tutti hanno sentito l’emozione della perdita, se ne va un ragazzo prima che un calciatore, uno di quelli che durante la settimana sta nel mazzo di carte che allietano la nostra vita, con le quali tutti giochiamo, uno di famiglia, una famiglia larghissima che oscilla tra odio e amore, rivalità e amicizia, allacciando storia, geografia, tattica ed emozioni. Inseguendo ed evitando gol si crea una convivenza che porta il mondo ad essere piccolino e a stiparsi in un campo. La miseria e lo splendore del calcio.

Sparendo un calciatore, sparisce una parte di noi, per questo a Firenze bisognava cantare e si è cantato, bisognava applaudire e si è applaudito e bisognava stringersi e tutti si sono stretti dimenticando le maglie, i ruoli, le fedi, le liti, le vittorie e le sconfitte, per dire ad Astori che seppure se ne andava, lo faceva con l’abbraccio di ogni singolo essere vivente che respira calcio, la sua e la nostra religione. L’altra. Un gradino sotto. Con la sua ritualità di massa, le sue regole e i suoi fedeli. Piena di solchi, rivoli, fossati, uno per ogni stadio, divisioni da esibire, eserciti da schierare, che questa volta, però, si sono uniti, bonificati. Persino la rivalità massima quella tra Fiorentina – la squadra di cui Astori era capitano – e Juventus: si è annullata (forse per sempre) quando la squadra da Londra, dove ha giocato la Champions League, è arrivata ai funerali: Buffon in lacrime ha salutato e stretto con Chiellini – compagno di stanza di Astori in Nazionale – i tifosi che normalmente li odiano, mostrando in un attimo la futilità dei sentimenti rispetto alla grandezza dei gesti. Le lacrime del capitano della Juventus erano la misura della grandezza di Astori, capace di annullare ogni rivalità. E prima c’erano state le parole – in inglese – di Chiellini nel paese del calcio, l’Inghilterra che a lungo aveva corteggiato Astori e che per le bizzarrie del calcio mercato ha mancato quei campi arrivandoci “solo” con l’eco delle sue gesta. Chiellini ha fatto un discorso shakespeariano da Antonio che seppellisce Cesare, piangendo, mostrando di essere un calciatore coraggioso come tutti quelli che sono costretti a picchiare in campo per il ruolo che gli è stato affidato e fuori sanno farsi perdonare. Nessuno ha trattenuto le lacrime, né i giudizi, persino Dani Alves – travisato e maltrattato – aveva fatto una lunga premessa d’affetto prima della sua dichiarazione da foresta amazzonica, con un senso diverso della vita e della morte. Insomma, quello che nelle partite è delegittimato – più sugli spalti che in campo – ha trovato un punto comune: il corpo di Davide, che è diventato un guerriero greco che perde prima della battaglia e perdendo mostra la fragilità agli altri, e la caducità del sistema che li regge. Generando una solidarietà che è tipica delle tragedie, ma è anche vero che questa volta è andata oltre. Proprio per i modi di Davide, per la malinconia del suo sorriso sopra il mento appuntito, con la barba rada, gli occhi buoni e nessuna concessione al cinismo.

I suoi funerali non sono stati glamour e new age come quelli di Diana Spencer, e nemmeno solenni come quelli di Gianni Agnelli, ma sono stati sinceri, con dentro l’omericità dei caduti in battaglia sostenuti dai loro simili: le persone normali; perché Davide non era un calciatore da copertina ma uno da compagno di linea, di banco, non un prevaricatore ma uno tosto quello che basta, tanto che nemmeno l’intensità retorica dei canti da stadio è risultata stonata, anzi, quando all’uscita della bara è cominciato il canto, si è sentita una atmosfera da campo, dove però a giocare c’era la nazionale del dolore, per la quale si è scomodato persino uno come Marco Van Basten, e dove non c’era allegria, ma rammarico per l’eroe, con le lacrime che avevano un unico colore: il viola. Nessun conflitto, nessun passato, solo un campo e una squadra. Dove la commozione prevale sul resto. La passione emotiva copre le diversità e le lacrime diventano affluenti di un unico grande corso. Il sentimento popolare oltre i singoli dolori in tonalità unica converge nella morte di Davide. Tutta la materialità che il calcio si porta dietro sparisce. Gli schematismi evaporano. Mostrando un paese molto più unito di quanto dicano le mappe elettorali, che nel profondo non ha nessun germe di mutua delegittimazione. Astori ha coperto bene il suo ruolo: riuscendo ad ottenere una linea difensiva compatta che si è costituita a istinto e che da Firenze è arrivata al resto del paese, come il romanzo che meglio lo racconta, quello di Alessandro Manzoni che proprio in quella città trovò la giusta misura linguistica. (da Il Mattino)

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Marco Ciriello

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