Libri. Le poesie ne “Gli occhi di Giotto” della Latorre: barlumi e orizzonti

Vascello
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Gli occhi di Giotto (edito dalla Vallisa) è l’opera poetica di esordio di Maria Pia Latorre, insegnante e pedagogista. Le cinquantasei liriche, che la compongono, suddivise in due parti, Barlumi cobalto e Orizzonti d’oltremare, senza soluzione di continuità data l’omogeneità dei temi e dello stile, sono precedute da una pregevole prefazione di Daniele Giancane e da una nota introduttiva della stessa poetessa che dichiara fin dall’inizio il suo amore per la poesia con una bella metafora: “versatemi parole in una tazza col caffè e mi farete felice”.  La raccolta si muove tra ermetismo e intimismo: le liriche sono in genere di pochi versi, intervallati da spazi vuoti, è quasi del tutto assente la punteggiatura, affatto predominante è il periodare paratattico con una aggettivazione precisa e mai ridondante e, come nota Giancane, con i verbi quasi tutti all’indicativo presente: “non è un caso: questa non è poesia che si riavvolge nel passato né che si proietta nel futuro. E’ ciò che accade qui, ora. Ciò che sta accadendo nel mondo e che l’anima della Latorre coglie in questo momento.”

La poetessa, infatti, nel guardare alle cose, al cane Giotto, all’albero di jacaranda, al mare, alla madre si percepisce fragile e indifesa di fronte alla vita, al dolore, al male ed ecco che cerca un rifugio nella parola poetica, nella quale vuole fissare le sue emozioni, il suo mondo interiore. Per lei vale la preziosa notazione di Christian Bobin, secondo cui “scrivere è un modo di rispondere alla vita.” Ciò che caratterizza la sua poesia è, d’altra parte, quella che possiamo definire una poetica dello sguardo. Come scriveva D’Annunzio nel Notturno: “L’occhio è il punto magico in cui si mescolano l’anima e i corpi, i tempi e l’eternità.” Ebbene, gli occhi, gli sguardi sono presenti in buona parte delle liriche, a cominciare da quella da cui è tratto il titolo della raccolta, Al cane Giotto: “Nel fiacco dormiveglia / a tener buoni i pensieri / ci pensa il ticchettio / alterno della coda / gli occhi umidi di Neruda, / mio caro amico, / sono i tuoi.” Qui la poetessa trova conforto alla sua inquietudine negli occhi innocenti del suo cane Giotto, cui finisce per prestare le fattezze del poeta prediletto e con un sottile gioco di rimandi ci fa assistere ad una sorta di immedesimazione tra lei, Neruda e il cane. Così nella poesia Di madre in madre è lo sguardo a dominare:

“Ho visto passare la tua / nera veste, mamma, / troppo distratta per capire… / così lentamente moriva il limone / tra il brusio delle foglie / moriva lentamente / giallo fradicio di pioggia / all’intensa luce aggrumata, / germinando frutti giocondi, / profumando lanterne di pace.  // Allora dicesti: / non fermare / la tua forza / in argini di tristezza, / piuttosto fermati / a contemplare / gli sguardi del mondo. // E ora che mi sei qui, madre mia, / è un’alba inondata di luce.”

Ed ancora nella lirica Cento per cento AMORE:

“Ti amo in libertà / con gli occhi allegri / del mondo / senza l’urgenza / d’averti accanto // divisi // fino in fondo / ché nei tuoi occhi / annegherò la vita”.

C’è poi un tema che attraversa l’intera raccolta e la connota, per la sua delicatezza, come una scrittura al femminile ed è il tema archetipico dell’acqua:

“Sono il fondo marino /pieno di vita nascosta / le tue braccia sono ancore / incagliate ai miei fianchi // sono una cosa leggera / su questa Terra e plano / come ombrello // Sono il pesce rosso agitato / nell’acquario dell’oceano // Sono dell’umiltà / della terra levigata / tra ciottoli acquei” (L’abbraccio ovvero leggerezza sostenibile).

Così nella lirica Mare: “Ti amo, mare! / Oh sì, ti amo! (…) // s’apre un varco / a riva / come scrigno / di conchiglia!”.

Ci piace concludere queste brevi annotazioni con la lirica Albero di jacaranda dove perfino l’albero, fondendosi terra e mare e cielo, viene trasfigurato in un vascello e in una cascata: “Fluttua un vascello in cielo / cascate azzurre / di nebbiolina, un velo.”

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Sandro Marano

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