Focus automobilismo. Gli italiani a Indianapolis

Indianapolis

La Indy 500 (o 500 Miglia di Indianapolis) è la corsa con maggior mistica dell’automobilismo mondiale, por vari fattori. Dettagli che rendono i 200 giri del circuito, spesso interrotti per incidenti, a volte purtroppo gravi, non solo il “tempio massimo dell’automobilismo”, ma che gli conferiscono alcune particolarità uniche. Una, forse la più caratteristica e nota, è la bottiglia di latte per il vincitore. Nel resto del mondo si brinda normalmente con champagne. Ad Indianapolis, culla dell’automobilismo sportivo, no! Una tradizione che cominciò nel 1936 con Louis Meyer, che chiese, dopo tante ore di sforzo, un bicchiere di latte per idratarsi e celebrare la vittoria (il “Proibizionismo” era comunque stato derogato nel 1933). Da allora i vincitori bevono e s’innaffiano con latte, diventato famosissimo. Emerson Fittipaldi costituì una eccezione. Vinse nel 1993 e preferì un succo d’arancia, anche perchè possedeva in Brasile una fabbrica di tale bevanda e fu una ottima occasione per farle pubblicità!

‘L’imprenditore Carl G. Fisher costruì l’autodromo con l’obiettivo di stimolare l’industria automotrice della zona. La 500 Miglia di Indianapolis è una gara nata nel 1911. Si svolge il fine settimana del Memorial Day (Il Giorno dei Caduti in Guerra, l’ultimo lunedì di maggio) sul circuito ovale dell’Indianapolis Motor Speedway di Indianapolis, con curve rialzate ed alte velocità. La prima edizione è stata vinta da Ray Harroun, l’ultima (il 28 maggio 2017) dal giapponese  Takuma Sato. Le vetture monoposto partecipanti alle serie americane (simili esteticamente alle F 1, ma con molte differenze tecniche) sono chiamate IndyCars e il campionato in cui essa è inserita, il più importante del Nord America, porta il nome di IndyCar Series. Lo statunitense Josef Newgarden è il campione per il 2017.Tra il 1950 ed il 1960 la 500 Miglia è stata valida per il Campionato Mondiale Conduttori di F 1, nel tentativo di avvicinare le due principali serie automobilistiche; tuttavia, l’integrazione fra i due mondi è stata scarsa e ne resta una traccia solamente negli albi d’oro. La Indianapolis Motor Speedway era stata costruita nel 1909 con l’intento di ospitare eventi di vario genere e fino al 1910 vi si tennero competizioni di auto, moto e persino di mongolfiere. All’epoca della costruzione la pista era ricoperta da un fondo in ghiaia e catrame, ma nel 1910 fu realizzato un nuovo manto stradale composto da tre milioni e duecentomila blocchetti di porfido. Per il 1911 gli organizzatori vollero un evento più importante che si disputasse sulle 500 miglia (200 giri). Così la prima edizione della 500 Miglia si svolse il 26 maggio 1911 ed il monte premi di ben 27.550 dollari attirò 46 concorrenti. Il regolamento prevedeva che la cilindrata non superasse i 600 pollici cubici (9.830 cm³) e che il peso non fosse inferiore a 2.300 libbre. Le edizioni successive videro un crescente interesse da parte del pubblico che accorreva sempre più numeroso. Per questo anche alcune marche europee, come Mercedes, Fiat, Delage e Peugeot, decisero di cimentarsi nella 500 Miglia. Peugeot, che aveva utilizzato un avanzato motore bialbero a camme in testa con quattro valvole per cilindro e camere di combustione emisferiche, vinse tre volte (1913, 1916 e 1919), Mercedes (1915) e Delage (1914) una. Nel frattempo il regolamento ridusse la cilindrata massima a 7.400 cm³’. 

È, come tutti sanno, la più celebre corsa al mondo. La Racing Capital of the World (Capitale mondiale delle corse), si disputa sul classico anello composto da quattro rettilinei (due lunghi e due corti) raccordati da 4 curve a 90°, per una lunghezza di 4.023 matri. L’inclinazione serve a ridurre l’azione della forza centrifuga sulle vetture, permettendo ai piloti di percorrere anche le curve ad oltre 300 Km/h. Infatti, all’epoca non erano ancora nate le tecniche aerodinamiche che permettono, attraverso l’indirizzamento dei flussi d’aria, il generarsi della deportanza e lo sfruttamento dell’effetto suolo. L’unico metodo per mantenere le vetture stabili senza diminuire la velocità di percorrenza era costruire piste con grandi inclinazioni. Indianapolis fu un esempio per tutti, anche per Monza, dove, tuttavia, l’”Anello di Alta Velocità” ebbe scarso successo. Per motivi di sicurezza, nel 1937 gli organizzatori di Indianapolis decisero di asfaltare completamente il catino.

Indianapolis è la Capitale dell’Indiana, uno degli Stati, a sud della Regione dei Grandi Laghi, appartenenti alla cosiddetta Corn Belt (la cintura del mais): insieme ad Illinois e Iowa   contribuisce in modo determinante al primato maidicolo mondiale degli USA. Oltre al mais, i suoi agricoltori coltivano la soia ed allevano grandi quantità di bovini, suini, pollame. L’agricoltura del Corn Belt è molto evoluta sul piano commerciale: gli operatori del settore lavorano fissando l’attenzione alla Borsa di Chicago. È l’America profonda, bianca, religiosa, tradizionalista, patriottica, orgogliosa della sua bandiera, che ogni anno esibisce in confezioni sempre più gigantesche, sono gli inni, i simboli, i riti, le stravaganti choppers, le gigantesche pick-up personalizzate, le ragazze sorridenti e prosperose che mostrano disinibite le belle gambe lunghe e sode, le cheerleaders, la musica country, i fuochi artificiali, gli stereotipi yankees, insomma: diluiti in un lungo weekend con bevute di birra a fiumi e molti aficionados sempre più in sovrappeso…

Visti in TV, appaiono gli States un po’ ingenui, conformisti, per niente intellettuali, convinti di vivere “nel migliore dei mondi possibile”, con problemi quotidiani, certo, ma con ottimismo,  soddisfatti, essendo sicuri che “Dio è americano” e sempre li proteggerà, avendo loro  affidato “il destino manifesto” di guidare ed influenzare i popoli della terra: nel campo politico, economico, sociale, etico, dei costumi, delle mode, persino dei vizi. Per certi versi la 500 Miglia di Indianapolis rappresenta altresì, nella passione dei partecipanti e dei numerosissimi spettatori, nel loro diffuso modo di essere, uno strano, un po’ contraddittorio compendio del matriarcato ereditato dai pionieri (l’America vista in forma positiva, sicurezza, rifugio amorevole, trasmissione dei valori, Statua della Libertà ecc.), più il femminismo post ’68, con il patriarcato residuale della tradizione biblica. Anche se solo la parte meridionale dell’Indiana appartiene al cosiddetto Bible Belt.

Dalla stagione 2012 i motori hanno al massimo 6 cilindri, 2.2 litri di cilindrata, eventualmente sovralimentati con turbocompressori. Da allora solo due marche forniscono i motori, la statunitense Chevrolet e la giapponese Honda. In quanto al telaio il provveditore ufficiale è l’italiana Dallara, fondata da Gian Paolo Dallara nel 1972 a Varano de’ Melegari, presso Parma. Iniziò fabbricando chassis per le categorie inferiori dell’automobilismo.

Con il tempo attorno alla 500 Miglia di Indianapolis, sono sorte altre sfide. Ad esempio la TRIPLE CROWN, cioè l’aggiudicazione dei tre massimi allori automobilistici: appunto la 500 Miglia, il Gran Prix di Monaco di Formula Uno, la 24 Ore di Le Mans. Finora un solo pilota ci è riuscito, il britannico Graham Hill, vincitore in terra americana nel 1966, poi due volte Campione del Mondo di Formula 1 (trionfatore nel Principato di Monaco nel 1963, 1964, 1965, 1968, 1969) ed infine a Le Mans nel 1972.

Sono dieci i piloti che hanno gareggiato in Formula 1 e vinto la Indy 500. L’ultimo in ordine cronologico è stato Alexander Rossi nel 2016, alla centesima edizione della storica gara. Cinque  coloro che hanno vinto il Mondiale di F. 1 e la Indy: Jim Clark, Graham Hill, Mario Andretti, Emerson Fittipaldi, Jacques Villeneuve. I quattro finora non citati: Mark Donohue, Danny Sullivan,  Eddie Cheever, Juan Pablo Montoya.

Passiamo agli italiani. Nell’Albo d’Oro della manifestazione compaiono vari cognomi italiani: Raffaele “Ralph” De Palma (1915), Dario Resta (1916), Peter De Paolo (1925), Cavino Michele “Kelly” Petillo (1935), i già ricordati Andretti (1969), Fittipaldi (1990, 1993), Dario Franchitti (2007, 2010, 2012) e Rossi (2016).

Di loro, nacquero in Italia Raffaele “Ralph” De De Palma (Biccari, Foggia, 1882 – South Pasadena, California, 1956), Dario Resta (Faenza,1882-Brooklands, G.B., 1924) e Mario Andretti (Montona, Istria, 1940).

L’unico però che non si era “nazionalizzato” statunitense o britannico al momento di vincere fu Ralph De Palma, su Mercedes 115-PS-Grand-Prix-Rennwagen. Lo farà più tardi, nel 1920.

Notissimi sono il grande Mario Andretti, capostipite di una eccellente dinastia di piloti e co-gestore del team ‘Andretti Autosport’ di proprietà del figlio Michael. Nel 2007 è stato nominato sindaco del libero Comune di Montona (oggi Motovun, Croazia) in esilio. Così come l’oriundo paulista Emerson Fittipaldi, anch’egli longevo pilota, fino ai 50 anni, ed a capo di una famiglia di corridori.

  Dario Resta (nato a Faenza, secondo altre fonti a Livorno), emigrato in Inghilterra con la famiglia all’età di due anni, cominciò a correre nel 1907. Si trasferì successivamente negli Stati Uniti, cogliendo vari successi. Rimase ucciso nel 1924, all’età di quarant’anni, in un tentativo di record di velocità a Brooklands. Guidava una Sunbeam quando una cintura di sicurezza si ruppe, forando col gancio di metallo un pneumatico e facendogli perdere il controllo dell’autovettura.

Dario Franchitti è uno scozzese di Lunigiana. Il padre Giorgio, anche lui già corridore automobilistico, è originario di Viareggio. Il nonno materno, Marino Massari, invece era di Baselica di Guinadi, paesino della Valle del Verde, nel comune di Pontremoli, da cui emigrò per stabilirsi a Glasgow, dove gestì un commercio di pesce. Insieme a altri piloti della Formula Indy, con nonni e bisnonni provenienti dall’Italia, Dario ha formato un gruppo di oriundi.  Paul di Resta, cugino di Dario Franchitti e del fratello, anch’egli pilota, Marino,  è stato ingaggiato dal Team Force India ed ha gareggiato in F.1, oltre ad aggiudicarsi il Deutsche Tourenwagen Masters nel 2010.

“L’uomo più veloce del mondo”:  il regista Antonio Silvestre ha recentemente lanciato un crowdfunding, una raccolta di fondi on-line, per la realizzazione di un documentario su Ralph De Palma, leggenda dell’automobilismo. Sia Silvestre che De Palma sono originari di Biccari. Al progetto collaborerà anche Maurizio De Tullio,  che proprio sul pilota ha scritto il libro  “l’uomo

più veloce del mondo” (2006) e che sarà il co-sceneggiatore.

Un documentario dedicato ad una delle maggiori (e dimenticate) leggende della storia; l’uomo ardimentoso, capace di imprese che lo hanno portato di diritto nell’olimpo dell’automobilismo mondiale; Enzo Ferrari rispondendo a domande su chi avesse ispirato la sua carriera ed i suoi successi, fece proprio il nome di Raffaele “Ralph” De Palma.

(Cfr. https://www.produzionidalbasso.com/project/ralph-de-palma-luomo-piu-veloce-del-mondo; http://www.foggiacittaaperta.it/news/read/raccolta-fondi-docu-film-ralph-de-palma-regista-antonio-silvestre; http://media.daimler.com/marsMediaSite/en/instance/ko/Indy-2015-Original-Mercedes-Benz-Grand-Prix-winning-car-in-the-pre-event-Triumph-in-Indianapolis-DePalma-wins-in-a-Mercedes-in-1915.xhtml?oid=9918701).

Emigrato negli stati Uniti all’età di dieci anni, nel 1892, Raffele De Palma, dopo aver praticato, con successo, ciclismo e motociclismo, esordisce nell’automobilismo il 9 aprile 1908. Tra le case automobilistiche con le quali gareggiò nelle più importanti gare organizzate negli USA e in Europa, si annoverano FIAT, Mercedes-Benz, Miller, Ballot e Packard. Detiene il record di 2557 vittorie su 2889 gare cui partecipò, come il record mondiale di velocità (241 km/h nel 1919) e la vittoria alla 500 Miglia di Indianapolis nel 1915 (considerata negli annali come unica vittoria di un italiano) e l’epica partecipazione a quella del 1912, come i grandi duelli con Barney Oldfield. Ralph De Palma è ad oggi l’unico pilota italiano ad aver battuto anche il record del mondo di velocità, stabilito a Daytona Beach, il 12 febbraio 1919: con la sua bianca Packard 905 (motore V12) raggiunse la velocità di 149,87 miglia orarie, pari ad oltre 241 km/h, una velocità mai raggiunta a quel tempo nemmeno dal più veloce degli aerei. Fu due volte Campione Nazionale degli USA e una volta campione del Canada. De Palma fu per milioni di emigrati italiani il primo “eroe dello sport”. (Da https://it.wikipedia.org/wiki/Ralph_De_Palma;wikipedia.org/wiki/500_Miglia_di_Indianapolis).

Ralph De Palma

L’episodio che torna alla memoria, quando si pensa a questo pilota è quello relativo alla 500 Miglia di Indianapolis del 1912, 

‘quando, dopo aver guidato la corsa per 196 giri, a due giri dal termine incorse in un’avaria meccanica alla sua vettura; a questo punto, con l’aiuto del suo meccanico, De Palma spinse a mano l’auto fino alla linea del traguardo nel tentativo di potere in ogni caso essere classificato. Fu una scena epica. In una pista polverosa e con spalti gremiti in lontananza, c’è un  uomo piegato su se stesso intento a spingere un’auto da corsa  a forma di cilindro o di siluro, dalla carrozzeria pesante. Più avanti, un altro, che a malapena si vede, è ugualmente intento a spingere l’automobile mantenendo il volante con le mani e cercando di mantenere la direzione. Non si vedono i volti, ma stupore e fatica si percepiscono lo stesso. Tra quelli che spingono c’è uno degli uomini più veloci di tutti i tempi, uno che è considerato il primo vero campione dell’automobilismo. Un pioniere. In quella corsa, come tantissime altre volte in carriera, è stato in testa tutto il tempo. Poi, al giro centonovantasei, quando ne mancano solo due, la macchina va in avaria. Ed allora lui scende giù e con l’aiuto del suo meccanico la spinge fino al traguardo tra il tripudio della folla che lo acclama come vincitore morale della corsa. Ed eroe sportivo’.

(Da Gianfilippo Mignogna, Un docufilm su Ralph de Palma: via al crowdfunding, 21.12.2017, http://www.melascrivo.it/author/redazione; https://alchetron.com/Ralph-DePalma).

Nel 1923 De Palma fondò a Detroit la ‘DePalma Manufacturing Company’ per la costruzione di auto da competizione e motori di aerei. Si ritirerà dalle corse solo nel 1936.

L’Italia era, tra le molte altre cose, una terra di grande passione e competenza per i motori e di corridori sfegatati. Sul suolo patrio e per il mondo. Uomini come De Palma correvano (e molto spesso addirittura vincevano), quando competere su auto rudimentali, ma veloci, era un’impresa incosciente, un concentrato di coraggio smisurato e di lucida follia, senza alcun elemento di sicurezza, né attiva, né passiva. Incarnavano il mito della velocità e del progresso. Un’affermazione di prepotente vitalità, una sfida pressoché quotidiana alla morte.

Crudeltà del destino. Ralph De Palma decede invece di cancro, a 73 anni, il 31 marzo 1956, a South Pasadena, in California, essendo sepolto nel vicino Cimitero della Santa Croce a Culver City, nella stessa Contea di Los Angeles.

                                                                                                Montevideo, 5.2.2018

*già ambasciatore in El Salvador e Paraguay

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Gianni Marocco*

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