Uomo solo al comando, nostromo ubriaco di un vascello fantasma. Padre padrone della longeva sigla The Fall, quel polemico attaccabrighe di Smith era da tempo una vera e propria istituzione in UK, almeno da quando il mitico dj della BBC John Peel se ne uscì con pubbliche e reiterate lodi; applaudito ma giammai istituzionale, più che alternativo indipendente. Un caso a parte, un affare di stato inglese, come il tè, la caccia alla volpe, la Rolls Royce e il posacenere del Jaguar. Eppure, a parte il nome preso in prestito da un racconto di Camus, la musica dei mancuniani era quanto di più lontano dalla posa artistica e dagli intellettualismi esistenzialisti. Tutte cazzate per sartine, ci s’immagina dicesse, molto meglio l’apologia del fuck-off, offerta agli sputi di un pubblico ancora non addomesticato dalle buone maniere dei concerti per famiglie. Piglio strafottente e attitudine proletaria, disincanto e invettiva sempre spiazzante erano messi in centrifuga, consegnando all’ascolto un ripetitivo sferragliamento elettrico, tutta l’alienazione metamorfosata in salmodiante delirio. Roba da docks, pioggia e sussidio di disoccupazione sperperato in alcol. Quel riassunto sordido e reazionario dalla grigia città industriale, rivoltoso quanto scettico e fortemente individualista, riuscì nell’impresa di generare una originale poetica del fastidio. Proprio grazie alla molesta vena caustica, Smith seppe rappresentare l’orgoglio del nord-ovest britannico più di altri, senza lo spleen dei coevi Joy Division e Smiths, ma con il mento alzato dello sbruffone all’uscita dal pub.
“Non hai capito? Te lo ripeterò all’infinito, fin quando non cederai, improvvido ascoltatore”. Incurante di mode e tendenze, mr. Fall ha continuato imperterrito a sfornare dischi, caratterizzati dall’inconfondibile marchio di fabbrica sonoro. Che poi sarebbe un abrasivo e ripetitivo “rock”, che passa come un carrarmato su tutto ciò che capita a contorno: elettronica, rockabilly, garage, punk, pop, etc., inglobando ogni cosa per poi sputarla fuori come bilioso scatarro. Poi vabbé, la voce. Che dire? Dall’accidiosa invettiva di fine anni ’70, al soliloquio mugugnante e sovente incomprensibile degli ultimi tempi, sempre con quel fare contrariato, sprezzante, scocciato, irreparabilmente bastian contrario. Per sintetizzare al meglio l’approccio Fall, sarà il caso di ricordare i dischi più importanti: Grotesque, Hex enduction hour, This nation’s saving grace, Reformation post TLC su tutti. Strampalatissimi capolavori al solito buttati lì senza troppe cerimonie. Anche dal punto di vista grafico, rappresentavano al meglio il non-stile pasticciato della band. Si badi, non la finta sciatteria paracula del grunge, ma proprio la voluta noncuranza, il menefreghismo più assoluto in fatto di estetica.
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Hanno forse importanza i titoli o i testi? Le foto accattivanti e ruffiane? Dettagli. Sarcasmo nerissimo piuttosto. Crediti intraducibili e note sempre scarabocchiate a pennarello, a completare un collage di raro cattivo gusto, ma pure di altrettanto rara spontaneità. Perché poi ci s’immagina lo sbotto di Mark E. Smith: “La grafica dei dischi? I video? Le moine promozionali? Faccende per fighette”; oppure: “Già ho creato un capolavoro che il pubblico medio non merita di ascoltare, perché perdere tempo con la copertina e i siparietti divulgativi?”. Resterà nei ricordi personali l’ultimo concerto visto, a Pordenone alcuni anni fa: Mark E. Smith in giacca e camicia maron, le mani in tasca e un volto impassibile da rettile tabagista, la bella tastierista col cappotto in luglio e la shopper in spalla, due batteristi messi al lavoro come schiavi. Uno dei quali non seppe mantenere il ritmo sincopato e perciò fu cacciato dal palco. Come in una partita di calcio con una mezza sega, sbattuta negli spogliatoi per indegnità. Quando si dice la coerenza, dopo quarant’anni di carriera, mentre nel frattempo tutto è mutato in virtuale estetismo e timorato nostalgismo, per i Fall vigeva ancora la regola proletaria del “buona la prima”. Fino all’ultimo ed oltre una morte che esenta il mondo dai salamelecchi ipocriti e dalla melensa retorica. Mark E. Smith è morto in gennaio del 2018, e ti viene voglia di mandarlo a quel paese. Non è mancanza di stile, è lo stile Fall.