Artefatti. Addio Mark E. Smith, nostromo ubriaco del vascello fantasma The Fall

mesMark E. Smith is dead. Il dittatoriale fondatore, nonché assai malmostoso cantante, della band post-punk The Fall, era una testa matta, oppure come lo definì schiettamente Stefano Isidoro Bianchi sul mensile Blow Up, una testa di cazzo. Quell’elegante epiteto, messo in apertura di un lungo articolo retrospettivo, era ovviamente un maschio complimento e contemporaneamente verità lapalissiana. Il direttore della più intelligente rivista italiana di musica, decise in quell’occasione di prendere di petto l’intricata storia del gruppo, nel tentativo di fare ordine e di tracciare una linea guida per il neofita. Al quale si presentava la disperata impresa di inoltrarsi in un casino totale. Ecco cos’è la discografia dei Fall, un inferno dantesco, dove il malcapitato seguace deambula come non vi fosse un domani e senza la benché minima possibilità di vedere la luce. Circa 200 uscite ufficiali – tra album in studio, live, mezzi live e mezzi no, raccolte, fondi di barile, singoli, b-side, remix, ristampe con e senza inediti, box antologici, nonché 24 Peel Session – e un numero di musicisti assunti, licenziati e di nuovo ripresi impressionante (più di 40); anche quando grandi strumentisti, sempre trattati come utili manovali, tanto per gradire l’ospitalità del padrone di casa. Tutto uno spezzo riconducibile a quel vecchio brontolone di Mark E. Smith, lo Scrooge dickensiano del R’n’R. Burbero, scorbutico, cinico, misantropo, il personaggio col peggior carattere della new wave e forse della musica di tutti i tempi. Ma pure un genio cocciuto, tant’è che un disco dei Fall va preso a scatola chiusa, sempre e comunque.

Uomo solo al comando, nostromo ubriaco di un vascello fantasma. Padre padrone della longeva sigla The Fall, quel polemico attaccabrighe di Smith era da tempo una vera e propria istituzione in UK, almeno da quando il mitico dj della BBC John Peel se ne uscì con pubbliche e reiterate lodi; applaudito ma giammai istituzionale, più che alternativo indipendente. Un caso a parte, un affare di stato inglese, come il tè, la caccia alla volpe, la Rolls Royce e il posacenere del Jaguar. Eppure, a parte il nome preso in prestito da un racconto di Camus, la musica dei mancuniani era quanto di più lontano dalla posa artistica e dagli intellettualismi esistenzialisti. Tutte cazzate per sartine, ci s’immagina dicesse, molto meglio l’apologia del fuck-off, offerta agli sputi di un pubblico ancora non addomesticato dalle buone maniere dei concerti per famiglie. Piglio strafottente e attitudine proletaria, disincanto e invettiva sempre spiazzante erano messi in centrifuga, consegnando all’ascolto un ripetitivo sferragliamento elettrico, tutta l’alienazione metamorfosata in salmodiante delirio. Roba da docks, pioggia e sussidio di disoccupazione sperperato in alcol. Quel riassunto sordido e reazionario dalla grigia città industriale, rivoltoso quanto scettico e fortemente individualista, riuscì nell’impresa di generare una originale poetica del fastidio. Proprio grazie alla molesta vena caustica, Smith seppe rappresentare l’orgoglio del nord-ovest britannico più di altri, senza lo spleen dei coevi Joy Division e Smiths, ma con il mento alzato dello sbruffone all’uscita dal pub.

“Non hai capito? Te lo ripeterò all’infinito, fin quando non cederai, improvvido ascoltatore”. Incurante di mode e tendenze, mr. Fall ha continuato imperterrito a sfornare dischi, caratterizzati dall’inconfondibile marchio di fabbrica sonoro. Che poi sarebbe un abrasivo e ripetitivo “rock”, che passa come un carrarmato su tutto ciò che capita a contorno: elettronica, rockabilly, garage, punk, pop, etc., inglobando ogni cosa per poi sputarla fuori come bilioso scatarro. Poi vabbé, la voce. Che dire? Dall’accidiosa invettiva di fine anni ’70, al soliloquio mugugnante e sovente incomprensibile degli ultimi tempi, sempre con quel fare contrariato, sprezzante, scocciato, irreparabilmente bastian contrario. Per sintetizzare al meglio l’approccio Fall, sarà il caso di ricordare i dischi più importanti: Grotesque, Hex enduction hour, This nation’s saving grace, Reformation post TLC su tutti. Strampalatissimi capolavori al solito buttati lì senza troppe cerimonie. Anche dal punto di vista grafico, rappresentavano al meglio il non-stile pasticciato della band. Si badi, non la finta sciatteria paracula del grunge, ma proprio la voluta noncuranza, il menefreghismo più assoluto in fatto di estetica.

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Hanno forse importanza i titoli o i testi? Le foto accattivanti e ruffiane? Dettagli. Sarcasmo nerissimo piuttosto. Crediti intraducibili e note sempre scarabocchiate a pennarello, a completare un collage di raro cattivo gusto, ma pure di altrettanto rara spontaneità. Perché poi ci s’immagina lo sbotto di Mark E. Smith: “La grafica dei dischi? I video? Le moine promozionali? Faccende per fighette”; oppure: “Già ho creato un capolavoro che il pubblico medio non merita di ascoltare, perché perdere tempo con la copertina e i siparietti divulgativi?”. Resterà nei ricordi personali l’ultimo concerto visto, a Pordenone alcuni anni fa: Mark E. Smith in giacca e camicia maron, le mani in tasca e un volto impassibile da rettile tabagista, la bella tastierista col cappotto in luglio e la shopper in spalla, due batteristi messi al lavoro come schiavi. Uno dei quali non seppe mantenere il ritmo sincopato e perciò fu cacciato dal palco. Come in una partita di calcio con una mezza sega, sbattuta negli spogliatoi per indegnità. Quando si dice la coerenza, dopo quarant’anni di carriera, mentre nel frattempo tutto è mutato in virtuale estetismo e timorato nostalgismo, per i Fall vigeva ancora la regola proletaria del “buona la prima”. Fino all’ultimo ed oltre una morte che esenta il mondo dai salamelecchi ipocriti e dalla melensa retorica. Mark E. Smith è morto in gennaio del 2018, e ti viene voglia di mandarlo a quel paese. Non è mancanza di stile, è lo stile Fall.

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Donato Novellini

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