Artefatti. Uscire dal boudoir della nonna, una favola per chi non sa donarsi

bamboleSettimane ed ottomane di delusioni, tant’è che novembre e poi dicembre ci misero poco a giungere. Adusi a stringerci nei rigidi paltò sul musicale sofà, dinnanzi ai secchi responsi delle femmine più neghittose, soppesammo con mezzo sopracciglio alzato se abbandonarci a sferragliante rappresaglia: “Fighe di legno!”, s’usava dire così in gergo, ad onta dell’altezzosa dama respingente, in scacco matto, come effimero riscatto e liberatorio sfogo. Fessura di pianta o foro d’un tarlo? Dubbi in merito ci logorarono a lungo, perplessità d’ordine ecologico, boschivo e semantico, fino all’illuminazione dell’Étant donnés.

Il legno è secco ma pure umido, vivo s’allarga e si restringe in base al tempo, ospita naturalmente muschio, funghi, tana di scoiattolo e nido d’uccello, respira galleggia brucia, infine s’arrende in cenere, per sbiancare panni. Tant’è che Pinocchio, per trasposizione narrativa, agghindato in cellulosa policroma, si barcamenò tra Mangiafuoco e annegamento, salvandosi diventando scialuppa di sé stesso. Per questo l’arrembaggio dell’orgoglio non trovò appagamento in tale improperio, per via del complimento camuffato da offesa. Non funzionava davvero, parole mal candeggiate e oltremodo immeritevoli per la smorfiosa negligente; sicché, rammentando la vetrinetta della nonna, ove giacevano immacolate le bambole di Boemia dipinte a mano, non adibite a ludico trastullo ma a pura decorazione, optammo per un più franco e perentorio: “Fighe di porcellana!”.

Con quelle non si poteva giocare, in quanto destinate alla lunga conservazione, al tramandamento da madre a figlia, all’eterno piumino dello spolverio. Raccontava nonna: occorreva arrangiarsi invece con pezzi di legno povero da intagliare, occhi carbone, ciuffi di granturco a far da chioma e tanta immaginazione. Eccola pronta la bambola quotidiana, alla faccia di quella smorfiosa intoccabile, esiliata tra i cristalli. Baloccandosi con quel poco e fantasticando assai sulla duttile materia prima, dimenticammo ogni rinuncia: “urrà! urrà!”, bastava questo entusiasmo alla zuava, per rendere superfluo l’inarrivabile. Fu così che la nera testa di pannocchia si fidanzò col burattino di faggio, lasciando alla pupattola di ceramica la vedovanza del soldatino di stagno.

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Donato Novellini

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