Storia. Atlanti e risorse, il dilemma dell’Africa dalla corsa alle colonie all’emigrazione

elephants_0Colori degli atlanti perduti…Perché le colonie avevano sugli atlanti quei colori? I possedimenti francesi erano viola, quelli spagnoli arancione, quelli italiani verdi (verde speranza?). Il verde pastello, se ricordo bene, era riservato alle colonie portoghesi. Dominava il rosa britannico. Perché? Forse era una convenzione tecnica tra cartografi, indotta dalle decisioni della Conferenza di Berlino del 1884-‘85, quella sulla spartizione dell’Africa.

     Questo mi chiedevo quando, alunno di Terza Elementare, verso il 1958, ebbi in regalo da uno zio, già ufficiale della Regia Marina, una edizione non recentissima, di prima della Guerra, dell’ “Atlante Geografico Metodico De Agostini”. Un testo prezioso che di solito si regalava in Prima Media, ma a me piaceva molto la geografia, conoscevo tutte le capitali, raccoglievo francobolli, monete, leggevo Salgari, naturalmente…

Era affascinante e non facilissimo per un bambino orientarsi tra colonie, protettorati, condomini (come il Sudan), vecchi mandati della Società delle Nazioni, in parte ormai cambiati, Dominions e membri del Commonwealth. Per non parlare delle isole oceaniche. Dopo il 1945 sarebbe toccata pure all’Italia l’Amministrazione Fiduciaria dell’ONU della Somalia. Un regalo costoso per chi lo riceveva ed alquanto tossico, ma che fu salutato a destra e sinistra come una parziale rivincita delle umiliazioni subite…

Amavo il mio vecchio atlante, ci passavo ore ad immaginare e fantasticare. Passati gli anni ed i decenni leggo ora che l’atlante è un’altra vittima della modernità. Oggi è il web che ti permette di avere tutte le mappe in tasca, di poterle consultare in qualsiasi momento, di guardare persino le fotografie delle strade che ti interessano, e dirti dove ti trovi attraverso un rilevatore gps. Con la differenza che l’atlante si lasciava tranquillamente guardare e sfogliare, invece le mappe Google scrutano te, ti chiedono il consenso a memorizzare ogni tua ricerca, elaborare i dati secondo i criteri Google ed utilizzarli come loro ritengono più opportuno. E non si tratta di una evoluzione più completa delle vecchie mappe. Si tratta di un differente modo di pensare. Le mappe di Google per raffigurare il mondo utilizzano sempre e comunque la proiezione di Mercatore, del 1569. Poco reale, utile per la navigazione, ma infedele nel modo di rappresentare i continenti. Per capirci l’Africa è grande quanto la Groenlandia, che in realtà è 15 volte più piccola. Le carte erano soltanto un proiezione del mondo, ma sul web pretendono di essere la realtà del mondo.

La terra è una sfera, una cartina geografica è una figura piana e non esiste un modo definitivo per aggirare questo problema. Passare dal tridimensionale al bidimensionale su superficie piana: esiste un’infinità di modi per farlo; nessuno di questi modi è totalmente soddisfacente. La riproduzione di un mondo a tre dimensioni in una rappresentazione a due ha da sempre tormentato i cartografi. Detto in altro modo, la Terra è un geoide, che suole essere rappresentato attraverso proiezioni cartografiche che trasformano la sfera in un piano. La base della planimetria. Vi è la cilindrica, con la sfera proiettata su di un cilindro tangente all’equatore (quella di Mercatore); la azimutale, la cui riproduzione si ottiene per proiezione prospettica su di un piano tangente e mantiene gli angoli rispetto al punto di tangenza; la proiezione di sviluppo conoide, vale a dire la proiezione prospettica su un cono, tangente a un parallelo, che viene poi sviluppato (“srotolato”).

La mappa più conosciuta è quella usata dal cartografo fiammingo Gerardo Mercatore. Non rispetta le misure reali reali dei continenti, magnificando Europa e Nordeamerica con rispetto al resto. Mercatore calcola bene le distanze fra Europa ed America. Provoca tuttavia una distorsione della grandezza di Paesi e Continenti.  Le regioni più prossime ai Poli Nord e Sud appaiono proporzionalmente più grandi di quelle che stanno vicine all’equatore. In conseguenza di tali critiche, i moderni atlanti geografici non usano più la proiezione di Mercatore per le mappe dell’intero pianeta, e per aree distanti dall’equatore, preferendo altre proiezioni cilindriche o forme di rappresentazione sinusoidale. La proiezione di Mercatore è ancora, invece, comunque comunemente usata per aree vicine all’equatore, dove la distorsione è minima.

Per i critici tale spropozione ha creato pregiudizi politici e perpetuato una “concezione eurocentrica”. “È storicamente servita per dare la sensazione della centralità europea e nordamericana, assegnando loro una grandezza artificiale”. Si tratta, ovviamente di una tesi terzomondista ridicola, perché le terre emerse si trovano essenzialmente nell’emisfero boreale, non in quello australe. La colpa non è quindi di Mercatore. Che non risulta essere stato un “suprematista bianco”, un razzista simpatizzante del Ku Klux Klan…

Indipendentemente dai difetti e distorsioni prodotti dalle rappresentazioni planimetriche (solo degli spicchi a sud ed a nord dell’equatore, una specie di tavole da surf affiancate,  permettono di avvicinarsi alla realtà, assumendo come base la proiezione di Mercatore ed infatti tale ipotesi l’ho vista riprodotta sulla copertina di un’edizione recente, geograficamente “politically correct” del famoso Atlante) la mappa dell’Africa dei secoli passati rivela ben altri motivi di curiosità.

  La locuzione latina hic sunt leones (qui ci sono i leoni) o hic sunt dracones (qui ci sono i draghi) è infatti un’espressione che viene associata alle carte geografiche antiche per indicare le zone ancora inesplorate dell’Africa, ricorrente nella storiografia e nella pubblicistica. Non è raro trovare l’indicazione hic nascuntur elephantes (qui nascono elefanti), ma quest’ultima sembra piuttosto un’informazione sulle risorse d’avorio. Spesso volte i cartografi dell’età preindustriale abbellivano le proprie mappe con disegni ornamentali; le coste, ovviamente, ed i porti base del precedente “colonialismo commerciale”, erano molto più conosciuti rispetto ai territori nell’interno. Per questo motivo essi ubicavano nelle vaste aree continentali ogni tipo di illustrazione che potesse risultare in qualche modo interessante, concedendo ampi spazi sia a luoghi immaginari ed irraggiungibili (luoghi di Gog e Magog, il Regno del Prete Gianni), sia a esseri leggendari, blemmi mostruosi, elefanti, unicorni, rinoceronti e leoni.

Circa alla metà del poema sarcastico “On Poetry, a Rhapsody”, del 1733, Jonathan Swift, autore satirico irlandese, padre di Gulliver, rivolge la sua attenzione alle cartine geografiche dell’Africa: “Così i geografi, sulle mappe africane, colmano con figure selvagge le proprie lacune, e mettono, bramosi di città, elefanti su bassipiani inabitabili”. All’epoca di Swift, gli esploratori europei avevano girato attorno alle coste africane e l’interno del continente era ancora un mistero. I mappatori “colmavano le loro lacune” con ciò che credevano potesse abitare in quegli angoli esotici del mondo – come anche in parti dell’America Settentrionale – scimmie, leoni vaganti ed elefanti o le creature mitiche cui si è fatto cenno.

Nel XIX secolo, gli elefanti vennero rimossi dalle cartine africane quando le spedizioni di David Livingstone e Herny Morton Stanley fornirono più informazioni sulla geografia del continente. Tali spedizioni però avevano un’estensione limitata ed il resto dell’Africa, negli anni a venire, rimase una terra parzialmente sconosciuta. Anche durante la Conferenza di Berlino del 1884 – ‘85, dove i colonialisti europei marcavano linee su una cartina dell’Africa e coloravano i propri futuri territori con le tinte “imperiali”, non si era sicuri di cosa si trovasse realmente all’interno di quelle aree. Sebbene i mappatori avessero rinunciato alla propria inclinazione a scarabocchiare strane creature all’interno del continente, non c’era molto altro da disegnare in quelle zone.

Quelle mappe geografiche africane, disegnate da un piccolo gruppo di cartografi occidentali, hanno forse rafforzato simbolicamente il senso di controllo europeo sui territori rappresentati, ma quasi nulla rivelavano circa le informazioni reali. A questo ci penserà l’imperialismo colonialista.

“Il termine ‘imperialismo’ diviene popolare a partire da uno studio del 1902 dell’economista inglese John A. Hobson, dal titolo Imperialism. Esso individua una fase economica – a cavallo tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, periodo di impetuosa crescita demografica, agricola e industriale dell’Europa – in cui la capacità produttiva dei principali Stati europei supera gradualmente quella di consumo, rendendo necessaria la ricerca di nuovi e più ampi sbocchi per merci e capitali, nonché nuove fonti di materie prime a costi contenuti per sostenere la produzione in aumento. All’elemento economico-industriale si associa, nel determinare i presupposti della corsa coloniale, una vigorosa spinta emulativa nei confronti della Gran Bretagna, il cui esteso Impero è visto come presupposto del primato economico del Paese. Da cui la convinzione, ampiamente diffusa nei governi e nelle opinioni pubbliche europee del tempo, che una politica di potenza nazionale non potesse prescindere dall’acquisizione di un impero coloniale”.

 (Fabrizio Maronta, in Atlante Storico-geopolitico del Continente Nero, “Limes”, 2006).

La colonizzazione europea dell’Africa fu un processo relativamente veloce (dal 1830, con l’occupazione francese dell’Algeria, al 1936, con la conquista italiana dell’Etiopia), ma che cambiò il mondo. L’acme di tale periodo fu a cavallo fra i due secoli, quando gli Stati europei (di gran lunga predominanti, Inghilterra e Francia, ma pure il Belgio e le ultime arrivate  Germania ed Italia, oltre a Spagna e Portogallo) instaurarono vasti domini coloniali che distrussero ogni sorta di indipendenza del continente.

Anche se molte popolazioni locali, quelle residenti lontano dalle città e dai porti, spesso manco se ne resero ben conto o, al contrario, accolsero positivamente il dominio bianco, più “leggero” di quello di altri vicini africani, che per secoli li avevano tratti in schiavitù per rivenderli a commercianti negrieri arabi o europei. Non si trattava, con l’eccezione parziale  dell’Etiopia nel 1935, di Stati costituiti e funzionanti in base ai nostri parametri (quelli della Pace di Wesfalia del 1648, per semplificare), quanto di spazi territoriali dalle frontiere non definite, ove spesso, soprattutto nel caso delle Colonie – non dei Protettorati del Nord Africa, ad esempio – tribù di tradizione guerriera, alleate o in conflitto tra di loro, normalmente dominavano su etnie tradizionalmente agropastorili.

La Conferenza di Berlino del 1884-1885, in tedesco Kongokonferenz, voluta dal Cancelliere tedesco Otto von Bismarck e dalla Francia allo scopo di regolare le molteplici iniziative europee nell’area del Bacino del fiume Congo, regolamentò il commercio europeo in Africa centro-occidentale nelle aree dei fiumi Congo e Niger, la navigabilità dei fiumi, essenziali vie commerciali,  in base al principio del libero scambio;  approvò una risoluzione contro la schiavitù, che divenne illegale, restando in parte inapplicata;  sancì la nascita dello Stato Libero del Congo sotto il (poi rivelatosi nefasto) controllo di Re Leopoldo II del Belgio. Tuttavia, la Conferenza consentì alle Potenze europee di proclamare possedimenti all’interno delle zone costiere occupate ed il principio per cui chi arriva prima in un posto può vantarne i diritti; Berlino si vide riconosciuto il Camerun e, poco dopo, proclamò un Protettorato sul territorio di quella che sarebbe divenuta l’Africa Orientale Tedesca: nasceva l’impero coloniale germanico. E probabilmente si stabilì pure una convenzione tecnica tra cartografi, perché ogni “grande” avesse un suo proprio colore. Come anzi detto.

S’innescò  così lo “scramble for Africa”: la lotta e la necessità di giungere per primi, nonché la necessità della sua occupazione reale (il principio di effettività) per poterne rivendicare il possesso, che portò ad una vera “corsa” nel tentativo di occupare un maggior numero di territori, che vennero poi delimitati dalle Parti secondo trattati basati su confini astratti e fittizi, fonte o pretesti di futuri, anche attuali, conflitti sanguinosi. Fu impossibile trovare un compromesso tra le rivendicazioni di tutte le Potenze. Le dispute relative alla spartizione dell’Africa, ed il conseguente inasprirsi delle relazioni, rientrano tra le cause del primo conflitto mondiale.  Enorme fu l’impeto con cui nella seconda metà del XIX secolo i maggiori Stati europei (la Russia intanto procedeva alacremente alla colonizzazzione di  spazi limitrofi) si gettarono nella corsa per l’accaparramento dei territori africani (ma anche del sud-est asiatico).    Agli albori della corsa coloniale, l’Africa – specialmente quella tropicale – rivestiva un’importanza limitata per investitori e mercanti europei. A ciò si aggiungeva una conoscenza approssimativa della quantità ed ubicazione delle risorse; le quali, anche nel periodo di massimo sfruttamento delle colonie, affluiranno difatti in Europa in misura minore di quanto inizialmente prospettato dalla propaganda imperialista, tranne che per alcune regioni, come il Congo o il Sudafrica.

Fu, in ogni caso, l’occupazione e divisione del territorio africano da parte delle Potenze europee durante il cosiddetto “New Imperialism” tra il 1881 ed il 1914. Durante gli ultimi anni del XIX secolo si ebbe la transizione dall’ “Informal Imperialism” (egemonia militare ed influenza economica) al diretto controllo del “Colonial Imperialism”.  Nel 1870 solo il 10% del continente africano era sotto il controllo europeo. Nel 1914 era oramai il 90%, con le sole eccezioni dell’Etiopia, dello Stato dei Dervisci, nel Corno d’Africa, e della Liberia.

Tra il 1875 ed il 1914 il nazionalismo  conobbe una grande espansione in Europa e Stati Uniti ed il suo contenuto ideologico e politico si trasformò. Il termine “nazionalismo” si usò a partire dalla fine del secolo XIX in Francia ed Italia per definire movimenti di destra che agitavano la bandiera nazionale e propugnavano l’espansione territoriale. Tale “nazionalismo” aspirava a monopolizzare, pur deformandolo in parte, il “patriottismo”, che a lungo si era identificato con i movimenti liberali, repubblicani, democratici e la tradizione della Rivoluzione Francese. L’essenza del nuovo “nazionalismo-patriottismo” coincide con il fenomeno della “nazionalizzazione delle masse”, cioè la crescente aspirazione del popolo, della gente comune ad identificarsi etnicamente (più che linguisticamente, culturalmente o religiosamente) con la propria nazione, i suoi simboli e memorie, opportunamente promossa e gestita dai governi.

Con l’auge del nazionalismo si diffonde contestualmente l’ideologia colonialista, l’idea di una “missione civilizzatrice”,  così come l’ “Arsenale della Democrazia” di Roosevelt diverrà poi il fondamento della propaganda bellica di Washington, la base del primato materiale ed etico statunitense. Rudyard Kipling scriverà (1899) una celebre poesia sul “Fardello dell’uomo bianco”, incitamento, per il cittadino europeo, a sacrificare anche la propria vita alla causa positiva della civilizzazione del mondo “barbaro”. I fautori del colonialismo argomentavano che il governo coloniale beneficiava i colonizzati sviluppando l’infrastruttura economica e politica necessaria per la modernizzazione e la democrazia. Tale visione si collegava, senza identificarvisi, con la teoria del darwinismo sociale di Herbert Spencer, una giustificazione scientifica della pretesa superiorità dei bianchi su altre razze o etnie. Per molti europei l’Africa divenne una sorta di Eldorado ed un paradiso sessuale, per rifarsi di secoli di oppressione clericale.

Nel 1939 dei tre Stati (o “quasi Stati” africani indipendenti suddetti) rimaneva solo la piccola Liberia. Si era aggiunto dal 1922 l’Egitto, anche se in fondo restava una “Informal Colony” britannica e le chiavi del Canale di Suez rimanevano saldamente in mani franco-inglesi… L’Unione Sudafricana era un Dominion semi indipendente dal 1910.

Ma la Seconda Guerra Mondiale la vincono gli USA, i quali si servono della Gran Bretagna come di una loro base operativa, militare, diplomatica, culturale, totalmente asservendola alla loro economia, alla loro politica estera (imperiale, ma diversa dalla britannica) ed alla loro ideologia del “Destino manifesto” su scala planetaria. Non c’è più spazio per l’orgoglioso British Empire  nel Regno Unito del duro, povero dopoguerra.

Il colonialismo europeo in Africa dava e prendeva. Costruiva aeroporti, ferrovie e strade, talora scuole ed ospedali, prendeva laddove c’erano miniere e materie prime utili. Ciò che oggi fanno i cinesi, soprattutto, anche perché il surplus umano dell’Africa non arriverà mai in Cina… Con l’aggravante che la Cina convoglia, ad esempio, il 70 per cento dell’avorio mondiale, un traffico illegale che si stima ucciderebbe cento elefanti al giorno, circa 35mila l’anno.

Nel caso dell’Italia il regime coloniale era economicamente disastroso (non a torto un diplomatico inglese ci ammonì, con sagace cinismo, nel 1935, prima dello scoppio delle ostilità con l’Etiopia: “ci fosse stato qualcosa da prendere l’avremmo già preso noi…”). Anche le altre potenze colonizzatrici, tutte stremate, si sono rese conto nel 1945, e pure prima, e non solo per le pressioni statunitensi, che il tradizionale “colonialismo all’Occidentale” costava troppo. E perché non puoi far studiare le élites locali, in un apprezzabile tentativo di acculturazione e diffusione di valori di civiltà e pluralismo, nelle tue scuole ed università, a base di Liberté, Egalité, Fraternité o di Democrazia Parlamentare e Rappresentativa ecc. e poi pretendere di dominare senza far complimenti gli riottosi, se necessario a scudisciate, da una Capitale lontana, dove un giorno pontificò Jean-Jacques Rousseau sulle innate virtù del “buon selvaggio”, non corrotto dalla società e dal progresso…

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel giro di un ventennio, un’insopprimibile ondata di voglia d’indipendenza in Africa ha portato alla completa decolonizzazione del continente. In alcune zone la sovranità fu ottenuta pacificamente, in altre, come in Algeria (la cosiddetta guerra d’Algeria durò dal 1954 al 1962) o nelle Colonie portoghesi, fu decisamente lacerante, cruenta. Anche se cruda, la realtà della “decolonizzazione”, o di molte regioni, è stata riprodotta benissimo, nel linguaggio cinematografico, da Africa addio”, un film del 1966 diretto da Gualtiero Iacopetti e Franco Prosperi. Il film è un famoso quanto controverso documentario sulla situazione in alcune aree dell’Africa del tempo. Ne traspare un’immagine, a volte molto realistica e raccappricciante. Delle stragi di animali selvatici, ad esempio, un tempo protetti dalle leggi ambientaliste dei colonizzatori. Il film ha goduto dei favori di gran parte della critica, avendo anche vinto un “David di Donatello”; da sinistra esso è invece stato accusato di proporre un’apologia del colonialismo.

Dai poco più di 200 milioni di abitanti africani della mia fanciullezza, quando studiavo  l’Atlante De Agostini, si è passati agli attuali 1,25 miliardi. Una “bomba demografica” imparabile e devastante, soprattutto per l’Europa. A parte detta “Bomba”, il Sud Sudan, lo Yemen (in Asia), la Somalia, esistono molte guerre “più o meno dimenticate”: nella sola Africa, dal Marocco al Mali, dalla Nigeria al Sudan, dalla Repubblica Centrafricana alla Repubblica Democratica del Congo, dal Burundi all’Etiopia, dal Mozambico all’Angola.

Una fetta consistente dell’opinione pubblica italiana ed europea pensa oggi che il colonialismo sia stato in primis un fenomeno oscuro, malvagio, da condannare senza tentennamenti e, ove possibile, da dimenticare. Forse è così. Dimenticando en passant che in molte città africane, all’epoca della dominazione coloniale, c’erano l’acqua corrente e le fognature o che il 3 dicembre del 1967, a Città del Capo, durante l’apartheid – sistema per la verità alquanto odioso, alla pari di quello a suo tempo vigente in Alabama e dintorni – all’Ospedale Groote Schuur, l’équipe del Professor Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto di cuore umano… Tra l’altro. E che tutti gli indicatori attinenti alla “qualità della vita” sono drammaticamente scesi laddove, praticamente ovunque, i colonizzatori sono stati forzati ad andarsene, lasciare le piantagioni, le fabbriche, i laboratori, l’insegnamento…

Quindi, tale opinione pubblica è piena di sensi di colpa, anche per le guerre civili che fanno oggi centinaia di migliaia di morti, magari a colpi di machete e per lo più bambini; cattiva coscienza solo in piccola parte giustificata dai fatti, dalla storia, ma che la Chiesa Cattolica, i partiti, l’informazione di sinistra si preoccupano di alimentare quotidianamente, avendo creato, ad esempio, il mito liberal di Nelson Mandela.

Ergo, la nostra obbligatoria espiazione senza fine, porte aperte a tutti… ergo benvenuto il meticciato universale travestito da multiculturalismo, ergo la nostra abdicazione continua, su tutto …Ergo…

*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay

@barbadilloit

Gianni Marocco*

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