Libri. L’eros della lontananza nella poesia immaginale di Silvia Martufi

blakeMartin Heidegger, il più significativo filosofo del Novecento, ha di fatto chiuso il suo attraversamento della cultura europea, volgendosi alla poesia di Hölderlin ed evocando l’aurora di una forma di sapere altra, rispetto alla metafisica e alla scienza: il pensiero poetante, capace di pietas. Oggi, lo rilevano le statistiche di vendita, i lettori di poesia sono un “popolo” in via di estinzione. Eppure, basta avere tra le mani una raccolta di versi, per capire la straordinarietà del poiein. Finché qualcuno continuerà davvero a far poesia, il mondo, la sua eterna giovinezza, ci appariranno con i tratti di un’estate invincibile. E’ impressione questa, emersa in noi al termine della lettura di alcune raccolte di versi della poetessa Silvia Martufi. Ci riferiamo, in particolare, alla sua quarta raccolta poetica, Fabula, nelle librerie per Passigli (euro 12,50) ed alla quinta, Brina, pubblicata dallo stesso editore (per ordini: info@passiglieditori.it, euro 14,50). Si tratta di prove compositive dalle quali si evince la maturità compositiva dell’autrice che, nel corso del tempo, ha ricevuto significativi riconoscimenti: segnalata al “Premio Montale” nel 1997, vincitrice della XIX edizione del “Premio Libero de Libero”, ha suscitato l’attenzione critica di insigni studiosi, a cominciare da Walter Mauro.

    Che cosa ci ha colpito della poesia di Silvia Martufi? Innanzitutto, il tratto assolutamente singolare ed evocativo del versificare, totalmente alieno dalle transitorie mode che, da un cinquantennio, sembrano sempre, sulle prime, voler scuotere dalle fondamenta le patrie lettere, finendo, di poi,  per arenarsi nel piatto mare del deja vu. La singolarità della poesia di quest’autrice, soprattutto in Fabula, è data, come ha riconosciuto nella Prefazione Dante Maffìa, dalla distanza abissale che la separa dal minimalismo imperante. Il poetare di Silvia nasce da un bisogno fortemente avvertito di ricerca del Sé (non è casuale che la poetessa abbia esercitato la professione di psicoterapeuta), il che la induce a riconciliare la “visione” poetica con la prospettiva mitica, eterna apertura a disposizione dell’uomo per guardare nelle profondità della vita e del cosmo. In questo senso, un precedente del poetare della Martufi può essere individuato nelle liriche “persuase”, o alla ricerca della “Persuasione”, di Carlo Michelstaedter. Ci riferiamo, in particolare, a I Figli del mare e alle liriche a Senia. La poesia quale possibile “Via alla salute”, capace di porsi/ci in ascolto del dolore e di insorgere contro la voce della philopsychia, che utilizza empiastri anestetici al fine di lenirlo. Il poetare “persuaso” ha l’ardire di sporgersi, ma questo è retaggio della miglior poesia novecentesca, sulla trama articolata del presente, per cogliervi il suo abbraccio (ineliminabile) con il passato che, eternamente, si rinnova e ripropone.

    Ciò spiega i continui rinvii alla grande tradizione culturale europea, antica e moderna, di Silvia, dove “cultura”, dal latino cultus, dice la necessità di “vivere a mo’ di…” . Questo il tratto sensibile, carnale, esistenzialmente patito, dei versi di Fabula e Brina, testimonianza di un vissuto mai pago, continuamente in fieri, proteso com’è all’interrogazione suprema dell’ignoto e del misterium di cui siamo parte vibrante. Quel che preme mettere in luce, è il tratto immaginale di questi componimenti. Silvia è conscia che “la poesia[…]dirà dalle immagini e con le immagini che agiscono (poiesis) nella parola, quello che di favoloso si può dire di una realtà” (Fabula, p. 9).  Il sapere delle immagini, stando alla lezione di un pensatore purtroppo misconosciuto, Ludwig Klages, ma essenziale in quel processo di “re-visione” delle cose di cui ha detto James Hillman, è un’ulteriorità rispetto alla ratio calcolante, che rappresenta l’officina progettuale della realtà contemporanea. Ma cos’è un’immagine? Lo ha svelato proprio Klages, in una pagina memorabile: “Cento volte posso aver visto la foresta davanti alla mia finestra, senza aver vissuto altro che la cosa[…]ma una volta[…]la sua vista riesce a strapparmi al mio io: ed allora la mia anima d’improvviso scorge ciò che io non ho mai veduto prima[…]l’immagine originaria della foresta, e questa immagine non tornerà né per me né per nessun altro” . Il rapimento o la malinconia rendono possibile l’apparizione, negata alla coscienza logo-centrica ed oggettivante, dell’Anima del mondo.

   E’ l’incontro con l’anima ad emergere dalle liriche di Fabula, in un viaggio ermetico, iniziatico, che si snoda nel dialogo ininterrotto di dei, eroi ed uomini. Vogliamo dire che l’oggetto ultimo di queste composizioni è il Sacro, esperito oltre ogni barriera confessionale “Fuggitivi sposi disincantiamo/la melodia del sacro,/ domani nuovamente/ raccoglieremo pezzi di cristallo/condense luminose/ dei nostri desideri/ e ne faremo sale” (Fabula, p. 19) Il tratto “femminile” di queste liriche non va colto, sic et simpliciter, nella sensibilità al “femminile” dell’autrice, cosa di per sé naturale e scontata, quanto nel tratto animico-evocatore dei versi. Gli dei, in essi, tornano a parlarci della metamorfosi, liberati dal tratto psico-patologico nel quale sono stati relegati dalla ratio. L’anima si protende verso l’immagine spinta da Eros non apprensivo, alieno dal dominio, conscio che l’unio  mantiene e non “risolve” i distinti, gli opposti: “Voglio portarti fuori/ rubarti/condurti nei luoghi dove non sei…” (Fabula, p. 43), o ancora : “Amore cosa, dove?/ Di parole ogni presa è furtiva/ e poi abbandonata sostanza” (Fabula, p. 45). Non c’è dubbio, si tratta del klagesiano eros della lontananza.

   E’ vero, lo ha rilevato Ernestina Pellegrini, la poesia di Silvia, come quella di Antonia Pozzi, può, dati tali tratti connotanti, trasformarsi in rifugio, ma può, al medesimo tempo, essere viatico di rinascita. L’a-mors di Aspasia, al centro delle liriche di Brina, nonostante lo slancio sensuale, si converte in preghiera, in tutela esistenziale dell’Altro. Del resto, il “ni-ente” che pur balugina tra i versi, come rivelazione, come scoperta ineffabile, è “religioso”: “E’ quasi abisso/ e roccia squarciata/dove penetra il mare/questa chiarezza che si va cercando/con la fuga,/ il niente del disincantamento” (Brina, p.17), ma “Resta il mistero/quello solo,/ancora/ a dettare risposte/con l’illusione di certezze”. (Brina, p. 18). Ascoltiamolo.

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Giovanni Sessa

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