Il caso. Se il romanzo di Pierluigi Pardo è un vero autogol

Pierluigi Pardo
Pierluigi Pardo

Le vittorie sportive si portano dietro sempre molte pagine, quelle calcistiche, poi, sono le peggiori: c’è ancora gente che scrive dell’urlo di Tardelli a Spagna ’82. Pierluigi Pardo con “Lo stretto necessario” (Rizzoli) usa il mondiale tedesco del 2006 vinto dall’Italia di Lippi, «Marcellone nostro», come sfondo per il suo primo romanzo: una zona mista di Nick Hornby, Sandro Veronesi, Luciano Ligabue e la nazionale cantanti con l’aggiunta di Springsteen. Avere una voce alla tivù – Pardo è un bravo telecronista –  non significa averla anche nelle pagine, succede di rado, in Italia ormai è come vincere un mondiale di calcio, ne viene fuori qualcuna ogni venti e fischia anni, se va bene.

Pardo prova a dare un linguaggio al suo protagonista Giulio – un pubblicitario che gira con l’altarino di miti che prega e invoca, intingendoli nella nostalgia e sentendo l’Inno alla gioia per i gol di Iaquinta – non avendo però la grandezza di Enrico Vanzina: uno dei pochi che sa registrare le voci e farne lingua, nelle pagine e al cinema; o di Pier Vittorio Tondelli, per rimanere al pop; il risultato è grottesco, oltre il déjà-vu. E se le citazioni sono superiori alle frasi proprie: dovrebbe essere fuorigioco o antologia. E se le battute politicamente scorrette vengono giustificate a mani alzate e quelle non corrette hanno lo spiegone, allora c’è da interrogarsi pure sull’editor. Sarebbe bello farlo leggere a Nanni Moretti, visto l’abuso degli inglesismi.

La copertina del romanzo di Pardo

Pardo cade d’enfasi, vorrebbe essere Beppe Viola, ma gli mancano pagina, dribbling e gol. (pubblicato sul Messaggero)

@barbadilloit

Marco Ciriello

Marco Ciriello su Barbadillo.it

Exit mobile version