Anniversari. Il raid Roma-Tokyo tra audacia dei piloti e genio dell’aeronautica italiana

Novantatre anni fa il successo del “Raid Roma Tokyo”, con l’arrivo nella Capitale giapponese, il 31 maggio 1920, degli aviatori italiani Arturo Ferrarin e Guido Masiero, assieme ai motoristi Gino Cappannini e Roberto Maretto.

Furono premiate non solo l’audacia e la bravura dei piloti, ma anche le capacità tecniche degli ingegneri italiani che progettarono gli apparecchi, lo spirito d’iniziativa che animava in quegli anni la nostra industria aeronautica, e in generale l’entusiasmo di un’Italia inventiva e coraggiosa, che brillava nel mondo per cultura, modernità, e capacità d’innovazione.

 

Nebbia sul Monte Fuji.

Tokyo, 31 maggio 1920. Il tempo è pessimo. Sono ormai le otto del mattino, ma nessuno spera più nell’annunciata schiarita: nuvole basse, pioggia e nebbia anche sulla pista di atterraggio allestita da circa una settimana in un grande spazio aperto tra Shinjuku e Chiyoda. Ombrelli, biciclette, qualche rara automobile. La folla di Tokyo presenta la varietà di forme e colori tipica del periodo di transizione che sta attraversando: un disordinato miscuglio di Oriente e Occidente.

Il pubblico che inizia ad arrivare sul grande prato vede decollare un aeroplano giapponese a due posti. Si dirige a Ovest, e presto scompare alla vista, inghiottito dalle nubi. Per qualche minuto si sente lontano l’eco dei motori, poi solo la pioggia. Purtroppo le difficili condizioni atmosferiche avranno la meglio sui due giovani aviatori giapponesi, la cui missione era di andare incontro a due biplani italiani, per scortarli fino al campo di atterraggio: finiscono, poco più tardi, sulle rocce del Monte Fuji, avvolto nella nebbia.

E’ il giorno della tappa finale del Raid Roma-Tokyo – i due equipaggi di Ferrarin e Masiero hanno attraversato l’Asia per 16.000 chilometri, dal Mediterraneo fino a dove sorge il Sole.

 

Italia Banzai!

Sulla pista l’attesa cresce, diventa frenetica; le autorità e gli inviati della stampa raggiungono il palco decorato con festoni tricolori. I militari trattengono a malapena il pubblico che aumenta, ormai supera i duecentomila.

Finalmente, dal cielo grigio, ecco il suono sordo di un motore, poi un altro.

La folla ondeggia, decine di migliaia di volti si alzano a scrutare le nuvole. Nulla. Silenzio assoluto, salvo quel rombo lontano, da un orizzonte invisibile…

Eccoli!

Un primo biplano si materializza improvvisamente poche decine di metri sopra la folla che esplode in un grido potentissimo, poi scandisce: “Banzai Italia! Italia Banzai!”

E’ un finimondo, ogni virata degli apparecchi in avvicinamento è accompagnata da esclamazioni di gioia e dallo sventolare di migliaia di bandiere. Quando finalmente le ruote toccano quasi terra, la gente spinge e supera la recinzione, si sfiora il caos. I soldati stringono le file.

Ecco sono atterrati! Da lontano, mentre ancora girano le eliche di legno, si vedono gli aviatori scendere dagli apparecchi. Sono in uniforme, impeccabili, e camminando veloce si risistemano le sciarpe bianche dentro il colletto. Si dirigono verso il palco, quasi di corsa, mentre la folla continua a gridare “Italia! Italia! Banzai!”.

Il primo è Arturo Ferrarin, ha venticinque anni: alto, aria spavalda ma senza arroganza. Guido Masiero arriva dopo di lui, e ha un grande sorriso che gli illumina il volto mentre anche lui viene ricevuto dall’Ambasciatore del Regno d’Italia, poi passa dall’abbraccio della comunità italiana ai saluti delle Autorità, alle medaglie, ai fiori. Li sommergono di domande, e loro rispondono a tutti, tutti li tirano e loro sono ovunque. I nostri saranno portati in trionfo per quasi tutto il giorno, su un’automobile camuffata da drago volante, nelle vie di Tokyo imbandierate con i colori delle due Nazioni. I festeggiamenti nella Capitale nipponica dureranno oltre un mese, e gli aviatori incontreranno Hiro Hito, allora ancora Principe Imperiale, per poi essere ricevuti dall’Imperatrice. Ferrarin riceve la più alta onorificenza giapponese, nonché una preziosa spada da samurai, di cui andrà sempre fiero.

Virtù e Fortuna.

Per settimane la stampa mondiale racconterà le prodezze di Ferrarin, e del “raid” italiano. Per la missione, grazie alla collaborazione tra Governo e industria aeronautica, erano stati predisposti quindici aerei, di cui undici biplani SVA (di cui alcuni in Asia Minore e in India, in caso di sostituzioni), più tre biplani e un triplano Caproni.

Ma alla fine, su undici equipaggi solo quelli di Ferrarin e Masiero, che nei piani dovevano servire da «staffette», arrivarono al traguardo. Gli altri dovettero rinunciare per avarie o incidenti. Purtroppo non mancarono le vittime: vi fu una tragedia a Bushir, quando lo SVA degli ufficiali Grassa e Gordesco ebbe un’avaria in decollo, si incendiò e precipitò portando con sé nel rogo i due aviatori.

Le tappe del volo di Ferrarin.

Ferrarin e Masiero partono insieme da Roma Centocelle, il 14 febbraio 1920. Prima tappa, l’aeroporto di Gioia del Colle… ma secondo alcuni, volano invece di nascosto a Fiume, per salutare Gabriele d’Annunzio. Poi Salonicco e di lì Smirne, ma il motore di Masiero si surriscalda e i due atterrano in una palude, a pochi chilometri dai combattimenti tra greci e turchi. Decollano tra cannonate e colpi di mortaio.

Il 19 febbraio ripartono da Smirne per Adalia, dove li accoglie una tempesta di ghiaccio. Il radiatore dell’aereo di Masiero si congela e esplode, così Ferrarin riparte da solo. Ma nel cielo di Aleppo si accorge all’improvviso di essere decollato senza slegare dalla coda le funi che erano servite a tenere l’aereo fermo sulla pista durante la tempesta. In mezzo alla neve, e con il timone semi-bloccato, Ferrarin riesce incredibilmente ad atterrare senza incidenti.

Il giorno dopo vola fino a Bagdad, dove stavolta è costretto ad atterrare su un campo da calcio nel bel mezzo di una partita. Il 23 febbraio rotta per Bassora, poi Bushir, sempre volando alto per evitare le fucilate dei ribelli.

Inizia la stagione delle piogge, dal gelo si passa al caldo soffocante dei monsoni. A Chaubar, in Pakistan, la temperatura è talmente alta che Ferrarin e Cappellini decidono di smontare la cappotta del motore. Funziona, ma i due arrivano a terra coperti di olio, e così rimangono immortalati in una storica fotografia.

Sempre sul Pakistan incontrano una tempesta di sabbia, il motore perde colpi e sono costretti a un atterraggio di fortuna. Degli indigeni guidati da un’amazzone seminuda prima li catturano, poi li lasciano ripartire per Karachi. A Delhi si rompe il tubo della benzina e Ferrarin atterra a motore spento, danneggia il carrello, ma a Calcutta riesce a cambiare aeroplano. A Yangon invece, in fase di avvicinamento si stacca il tubo del radiatore. Il motore si ferma, ma lui riesce comunque a planare fino a un ippodromo.

Vola poi a Canton sotto una pioggia battente. Il campo di atterraggio è allagato: Ferrarin cerca altri spazi aperti sorvolando la città, ma la benzina sta per finire. Alla fine atterra in mezzo a una piazza affollata: unico incidente, rompe l’ombrello a un cinese.

Da Canton, gli aviatori raggiungono Tsing Tao, poi Tientsin, e in seguito Pechino: l’accoglienza è entusiastica, le cronache del “raid” iniziano ad assumere toni trionfali. Le tappe continuano, fino a Seul e infine a Daegu, a Sud della Corea. Da qui si parte per il Giappone. Ferrarin sorvola l’isola di Honshu e – nel frattempo raggiunto da Masiero – finalmente vede Osaka, dove atterra il 30 maggio 1920. Il giorno seguente, ignorando il cattivo tempo, Ferrarin e Masiero partono per Tokyo e vi arrivano in mattinata, in mezzo a una folla in delirio.

Fino alla fine del mondo con un biplano di legno e stoffa.

Ma torniamo al campo di atterraggio di Tokyo, dove quella mattina i curiosi si accalcano attorno ai due apparecchi rimasti sulla pista. I danni e le riparazioni sono ben visibili: ricordi degli atterraggi di fortuna, delle tempeste di sabbia. L’olio del motore ha macchiato a lunghe strisce i fianchi della fusoliera, l’esposizione alle intemperie e le molte avventure hanno lasciato il loro segno sui due apparecchi, soprattutto sulle parti in legno e stoffa. Non mancano nell’ala dell’aereo di Ferrarin addirittura tre fori di proiettile, opera di uno zelante soldato in Manchuria che sparando in aria (ma sotto l’ala però!) aveva inteso difendere l’aereo dalla ressa…

Ma gli SVA sono aerei solidi e affidabili, realizzati nel 1917 dagli ingegneri Savoia e Verduzio, e fabbricati dall’Ansaldo. Hanno un curriculum di tutto rispetto, essendo stati utilizzati con successo dall’aviazione italiana nel primo conflitto mondiale, per la ricognizione e il bombardamento.

Fino ad allora, lo storico volo per il quale risultava più conosciuto questo biplano era stato quello del 9 agosto 1918, quando otto SVA riuscirono a raggiungere Vienna, sorvolando 800 km di territorio nemico, per lanciare volantini sulla Capitale austriaca.

A scrivere il testo roboante di quel famoso messaggio era stato uno di quegli otto aviatori: Gabriele D’Annunzio.

L’idea del “Raid Roma Tokyo”.

E’ così che arriviamo alla paternità ideale del Raid Roma-Tokyo: un’idea ambiziosa lanciata proprio da D’Annunzio, e nata da una conversazione del poeta con l’amico Harukichi Shimoi, un giapponese che si trovava da anni in Italia, e insegnava all’Università Orientale di Napoli. I due si erano conosciuti al fronte, dove Shimoi, che conosceva le arti marziali – oltre al dialetto napoletano… – era riuscito ad arruolarsi negli Arditi. Fu Shimoi a convincere D’Annunzio a progettare il volo fino a Tokyo, e naturalmente a parteciparvi personalmente.

Va detto che il Governo italiano, ansioso di allontanare D’Annunzio dall’Italia in quel periodo di crescenti tensioni attorno alla questione di Fiume, fece di tutto per favorire l’operazione.

E non mancava nemmeno l’interesse dell’industria aeronautica nazionale, che mirava a conquistare nuovi mercati per aeromobili e motori italiani. Per questo, anche se alla fine D’Annunzio rinunciò al raid per dedicarsi invece all’impresa fiumana, la preparazione del volo Roma-Tokyo non si interruppe. Inoltre con il successo della missione, la fama dell’SVA fece il giro del mondo, e l’aereo fu esportato in Paesi come Argentina, Brasile, Francia, e Stati Uniti.

Nel frattempo, insieme a D’Annunzio partì per Fiume – stavolta in veste di Legionario – anche l’eccentrico giapponese con l’accento napoletano, Harukichi Shimoi … ma questa è un’altra storia.

* da Il Giornale d’Italia

Mario Vattani

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