Esercizi di ammirazione. Il dolore perfetto di Pierluigi Cappello, poeta

Pierluigi Capello, poeta
Pierluigi Capello, poeta

Perché le vite dei poeti sono così atrocemente impoetiche? Vite mutilate, mozzate. Corpi storpiati, stravolti dalla sfortuna. Esistenze prigioniere di paesi oppressi da montagne che uccidono l’orizzonte, pieni di gente che ti passa accanto con la testa ingombra di giudizi convenzionali e ostili. Il tuo respiro in scala maggiore stretto tra quattro muri, no, non muri di cemento: pareti di legno scuro impermeabilizzato, bella eredità del terremoto del ’76, i prefabbricati che proteggevano dalla pioggia quel che restava del Friuli collinare, incrostato di polvere. Dentro a una di quelle gabbie ci fai galleggiare una scrivania, su una parete accosti una libreria bassa, àncori te che voli a una sedia a rotelle e lanci le dita sul foglio. No: prima le costringi a stare ferme anche loro, contratte, mentre le parole crescono come albe dietro le montagne e si lasciano cadere di dosso ogni suono inutile. Trovi addirittura quella pazienza. Non per la gloria, che plausibilmente sarà di chi ha buone relazioni, un cognome importante, una casa di famiglia con affaccio sui monumenti di interesse turistico della città. Non aspetterà mai te, che sei figlio di friulani ritegnosi e amico (vero) di quello che fa le gerle, del falegname, del vaccaro del paese. È  un mistero il tuo faticare per la bellezza, dei suoni e dei significati.

La scrittura di Pierluigi Cappello è stata sempre qualcosa di eroico. Paralizzato, a sedici anni, dalla vita in giù per un incidente in moto, ha incontrato nella poesia quell’orizzonte verso cui dirottare il proprio sangue, muto dalla vita in giù.

Dalla vita in giù. Sopra la vita ci può essere solo l’ottimismo metafisico, la morfina, l’assenzio, o il volo. Assetto di volo si intitola la sua prima robusta raccolta di versi, così severi da essere classici, così classici da sembrare sussurri intimi, di velluto. Parole “elementari”, eppure di limpido cristallo. E dopo è bastato girare quel cristallo, che in realtà era un prisma, e sono venute le altre. Gentili, alte, sincere, sottili. Quel carmen deductum che si studia-sogna al liceo e si ritrova in Caproni.

Era un frùt di Chiusaforte, Pierluigi, paesino del Friuli più duro e più scuro, stretto tra le montagne, sfiorato dalla Pontebbana. Lì il mondo arrivava solo da oltre il filo spinato delle caserme della guerra fredda, che dovevano proteggere l’Italia dall’avanzata della Russia.

Poi la Russia non si è mai mossa e le caserme, piano piano, si sono svuotate e ci sono cresciute sopra le piante pioniere; il paese è stato tempestato non dall’impeto dell’utopia politica ma dal terremoto.

Solo le montagne intorno sono rimaste, e per ogni soldato che se ne andava dove poteva servire a qualcosa, in un’ingenua nostalgia di umanesimo, erano più alte. Montagne di un verde così compatto, cupo, un livido bluastro vecchio come il tempo.

Quando è partito dalla casa dell’infanzia, Pierluigi, non è finito troppo lontano: un prefabbricato nella periferia di Udine, a poche centinaia di metri dalla Pontebbana. Giusto negli ultimissimi anni aveva cambiato casa e girato un po’ per qualche piazza mondana, festival letterari e simili. E appena arrivava lui sentivi quell’inflessione pastosa del montanaro friulano, mai emendata, perfetta per parlare di Dante e per schiudere i segreti delle poesie da antologia senza fare i piazzisti. Ispirazione e vis pedagogica, in lui, andavano di pari passo. Bravo a insegnare quanto lo era a scrivere. Il suo libro più bello, che singolarmente è di prose e non di versi, Il dio del mare, andrebbe adottato in tutti i licei. Andrebbe fatto trangugiare a forza a quelli che dicono signorsì alla fiction di stato per farsi certificare maturi. Sennò niente sei in italiano. Non è un libro: è un miracolo, di scrittura coltissima, disciplinata, pura e insieme quasi sorridente. Come spiega perché dopo un secolo la poesia “Soldati” di Ungaretti è così nostra ancora – e lo sarà tra un secolo –: un miracolo. Ogni pagina – anche le critiche (non poche) a questo sciocco avvenire diventato presente – è sobria, non conosce un cedimento al narcisismo, all’acredine, all’indignazione urlata.

Sembrava il suo riscatto, la parola, per una vita muta dalla vita in giù. Sembrava che lo stesse ripagando delle sofferenze terribili, inspiegabili. Sembrava dovesse durare per qualche decennio almeno. Sembrava poter mettere le cose a posto, almeno un po’. Bilanciarle, almeno un po’. Invece Pierluigi è morto l’altro giorno a cinquant’anni, di cui trentaquattro anni a metà. Bella roba il dolore. Aveva ragione l’Euripide di Carlo Diano, allora; non l’Eschilo o il Sofocle: il dolore “è assurdo”.

Non citerò nessuno dei suoi versi, perché mi pare di ridurlo a troppo poco, e poi mi piacerebbe che li compraste, i suoi libri, anche se non serviranno più a fargli prendere una casa dove non gli venga la febbre in estate per il caldo (quando abitava nel prefabbricato, gli veniva la febbre, in estate, perché il suo corpo non sapeva più smaltire il calore), né a farlo diventare ministro della cultura al posto di… Chi c’è adesso? Non importa: sarà di sicuro un cretino. È pieno di cretini, a Roma e sui giornali, una fiumana di uomini, di cose, di parole dette, di parole taciute, che erompe dalla gola di Chiusaforte e trascina con sé non solo i calcinacci e la polvere insanguinata del terremoto del ’76, i rifiuti speciali degli ospedali, le macchie nere delle ecografie, ma anche le omissioni che hanno ‘fatto’ la storia. Un tumultuare infinitamente pesante, infinitamente vano, da cui la poesia scappa, scappa così veloce, così disperatamente che sembra che voli.

“Vieni,

guardiamo la neve,

fino a restarne sepolti.”

annavalerio@libero.it

@barbadilloit

Anna K. Valerio

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