Artefatti. Brasillach o del drammatico dilemma: “Sei mai stato giovane?”

Troppo buono per fare il cattivo, troppo cattivo per essere graziato, troppo defunto per essere ricordato. Peccato, perché il patriota francese dimostrò grandi doti come scrittore, inedito estro di assoluta modernità

Il poeta fascista Robert Brasillach in abito scuro al centro della foto
Il poeta Robert Brasillach in abito scuro al centro della foto

Altroché Céline, epilogo in contumacia danese e poi trasandato in stracci di misantropia, o Pierre Drieu La Rochelle, suicida per troppo stile, tanto da relegare la morte a faccenda estetica, la sorte che toccò a Robert Brasillach fu il plotone d’esecuzione, poi l’espulsione dalla memoria letteraria francese e quindi l’oblio nel girone infernale dei collaborazionisti filo-tedeschi, quale massima infamia. Un non redento, nemmeno postumo, un fantoccio delle lettere dileggiato con evidente disprezzo, fino ai legni del patibolo ed oltre: la sentenza di colpevolezza, il naufragio nell’amnesia, l’irrilevanza. Minutaglia fascista per la depurata cultura di regime instauratasi, scribacchina feccia composta da traditori, fossa comune d’impresentabili, tutti braccati dai gollisti dopo lo sbarco in Normandia, nel 1944. Eppure la vicenda di Brasillach, capro espiatorio perfetto, assomiglia più a una fiaba dal finale triste, piuttosto che all’esercizio della giustizia, una qualsiasi, foss’anche sommaria e partigiana. Capricci a sorte, esprimere l’ultimo desiderio mentre la falce rende nero il grano. Il sospetto che la gioventù s’accoccoli in mesto ricordo. Dimenticare tutto, come le impronte sulla sabbia, cancellate dai flutti. Censura o bianchetto, quisquilie.

Vendetta nei confronti di un arreso che tuttavia non volle rinnegare la propria Opera, ritorsione un po’ vigliacca verso il più debole, colui che si costituì per evitare all’anziana madre l’onta del carcere. Ingabbiarono lei infatti, per arrivare a lui, ed egli si presentò alla sorte e poi alla Corte, anche per assaporare il brivido di morire giovane, com’è privilegio degli idealisti e degli illusi; anche per poter rispondere al solidale “è una vergogna”, partito dal pubblico presente in tribunale al momento del verdetto, con quell’epitaffio eroico “no, è un onore”. Morire per la Francia, morire per delle idee, tutto inchiostro narrante sconfitte da sempre messe in conto, pure dal panettiere. Nel profilo dello scrittore di origini catalane, emerge infatti un elemento entusiasta e al contempo malinconico, fanciullesco, tratto d’ingenuità, bontà d’animo anche fisionomica, trasfigurata in una adesione ideologica dai forti connotati utopici. Lo capirono intellettuali come François Mauriac, Paul Valéry, Paul Claudel, Albert Camus, Marcel Aymé, Jean Paulhan, Jean Cocteau, Colette ed altri, firmatari della petizione per la domanda di grazia nei confronti Brasillach. Non ci fu verso, qualcuno di quella genìa romantica avrebbe pagato per tutti. Così, per dare “un segnale forte”, il cosiddetto buon esempio. La sentenza riferentesi a “crimini intellettuali”, resterà come vergogna imperitura, a maggior ragione nella patria dei lumi.

Ma chi fu, quel paffuto e occhialuto scrittore, col vezzo di cingersi il collo con sciarpa rossa? Anzitutto un grande cultore di film, tant’è che la sua esaustiva Histoire du cinéma rimase per lungo tempo documento imprescindibile di letteratura critica. Segno di posizioni affatto nostalgiche o passatiste, bensì caratteristica di ecletticità e spiccata sensibilità artistica. D’altronde i veri reazionari preferivano l’elitarismo del teatro, non certo l’artifizio popolare d’immagini proiettate su telo, già prefigurante quel mondo nuovo, quel rifacimento della vita, in seguito monopolizzato dall’entertainment hollywoodiano. Predisposizione a fare apologia della giovinezza – attitudine diffusa nella prima metà del ‘900, tempo ancora così affascinato dal Futuro – che in Brasillach si fonde curiosamente con il classicismo poetico virgiliano, forse nell’intento di rinnovarne l’Arcadia, proprio a Parigi, sempre promessa nuova capitale d’Europa. Tant’è che negli anni ’30 la notorietà dello scrittore cresce rapidamente, sia negli ambienti letterari che in quelli giornalistici, di pari passo all’esigenza di collocarsi politicamente, com’era d’uso e talvolta posa tra intellettuali. L’Arcadia surrealista, ovvero quel cenacolo artistico in grado di coniugare posizioni eterodosse, andò in frantumi con il consolidamento dei totalitarismi. Brasillach radicalizzò così la sua militanza fascista pan-europeista e filo-germanica, tanto da sposare meccanicamente l’antisemitismo. Ostilità invero piuttosto ingenua, ben diversa dal roboante e ancora letterario “scatarro sul mondo moderno” (del quale gli ebrei erano i preconizzatori) di Céline; diversa anche dall’ambigua vanità di Drieu, più interessato al vestito da portare – foss’anche la bella divisa SS pur avendo sposato una ebrea – che alle reali conseguenze di uno sterminio di massa già in atto. Per Robert Brasillach la questione giudaica si risolveva banalmente, senza nemmeno l’appiglio di un guizzo luciferino o sadiano, senza quel sospetto interiore – tormento che pure colse tanti altri intellettuali dalla “parte sbagliata” – in grado di muovere a dubbio, quando non a pietas. In grado di suggerire: sto scrivendo delle cazzate, su Je suis partout. Oppure, ancora: scriviamole ‘ste cazzate, ma ricamandole d’arte letteraria abrasiva, di atavica bile, non di stereotipi piccolo borghesi e revanscisti rancori, da razzisti dell’ultima ora. Minutaglie da capo-redattori, che gli furono fatali.

Questo fu il suo limite giornalistico e politico, la mancanza di originalità, tipica della coerenza o della buona fede, quel non sapere bene che fare, da vivo, nelle oscure regioni della part-maudite. Troppo buono per fare il cattivo, troppo cattivo per essere graziato, troppo defunto per essere ricordato. Peccato, perché Brasillach dimostrò grandi doti come scrittore, inedito estro di assoluta modernità, capace di accostare delicatezze poetiche d’amori impossibili allo sguardo benevolo e quasi documentaristico sui regimi fascisti. Paradossalmente nello stesso libro. Si rammenta infatti con piacere I sette colori, romanzo davvero sperimentale, anti-romanzo narrante d’altro, d’assenze o apparenze. C’è tra quelle pagine ormai ingiallite la romantica posticipazione del piacere, l’adolescenziale trasfigurazione dell’amore sempre evaso in puro elemento contemplativo, quelle affinità elettive destinate a non incontrarsi mai, quelle disdette organizzate per evitare tutto ciò che segue, l’arcano violato del primo incrociarsi degli occhi, lo sperpero delle assenze. Un bacio negato. Volutamente. Volutamente demandante ad altro, all’indicibile, al chissà mai. Diviso per l’appunto in sette parti – Racconto, Lettere, Diario, Riflessioni, Dialogo, Documenti, Discorso – il volume forgia un’epica della gioventù e dell’immaginifico far dono di sé, così intrisa di mancate corrispondenze e di premurose attenzioni, presentimenti e stanche propaggini nel diventare adulti, tanto da rappresentare un caso pressoché unico nella letteratura, cosiddetta moderna.  La domanda, quindi, non è: “sei stato fascista?”. Bensì altra. Tu, sei mai stato vivo? Tu, sei mai stato giovane?

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Donato Novellini

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