Artefatti. Caramelle e luoghi comuni, a Mantova un festival per tutti e per nessuno

Mr. Bean e Teddy“Perché Sanremo è Sanremo”, così recitava, tra il tautologico ed il reiterativo à la Gertrude Stein, uno slogan a favore della manifestazione canora rivierasca. Similmente per quanto riguarda il Festival della Letteratura di Mantova, lo scorso anno giunto all’anniversario vagamente totalitario del ventennio ed ora al giro di boa, pare sia impossibile fare altro che ribadire automatico assenso, una pedissequa presa d’atto nei confronti dell’istituzione culturale par excellence, che non lascia spazio a credibili divergenze d’opinione. Solitamente, infatti, le geremiadi provengono dagli assenti, da tutti quei paria della penna non inclusi nell’esclusivo parterre, ma segretamente desiderosi d’esservi. Siamo alle solite, quindi: chi c’è spennella l’arrosto col grasso, chi non c’è s’arrabatta a dirsi vegetariano, come dai tempi di Esopo, con l’uva e la volpe, senza grossi mutamenti.

Ci si immagina con poco sforzo che, per taluni habitué, l’eventualità infausta di una esclusione dai palinsesti possa degenerare fatalmente in trauma irreversibile. D’altronde perché dissentire, se non per capriccio snob? L’impagabile piacere di deambulare per il salottino rinascimentale virgiliano, con passi da letterato distrattamente penzolante dal taschino della giacca in lino – a maggior ragione se con all’attivo solo qualche manualetto divulgativo, giacché per il resto dell’anno si appartiene ad altra categoria (i comici onnipresenti, ad esempio, per non parlare dei giornalisti con libri all’attivo) – è pura immanenza proustiana. Con il gravoso sospetto (da zittire) che, se da quelle parti fosse passato l’arguto Marcel, il quadretto avrebbe ispirato ben più di un capitolo della Recherche, relegando inesorabilmente i pavoni della penna nel microcosmo ipocrita dei Verdurin. L’importante è oltremodo presenziare, in fondo poco importa a quale titolo: ospiti oranti, volontari con magliette blu, azzimati abbonati, imberbi lettori di Fabio Volo, eruditi seguaci di Ceronetti, sincretisti biblisti buddisti cabalisti, o qualunquisti in ciabatte con l’ultimo Strega sottobraccio. Ecco appunto, questa sventura della “partecipazione” ahinoi ereditata da Gaber, questa panacea collettivistica, in fondo così debitrice della “mondanità” comunitaria post conciliare (vaticana), s’appiccica caramellosa in favore d’evento, barattando l’approfondimento privato con un concertone per aspiranti eruditi.

Il ristretto clan che del Festival tutto decide, dall’alto dell’autorevolezza consolidata e dei numeri vincenti, bonariamente annuisce: il sogno demiurgico di rendere nazionalpopolare la letteratura è sotto gli occhi di tutti, il pedagogico elitarismo tipico di Radio 3 trova così sbocco vanaglorioso nella parata di ospiti illustri e premi Nobel, mentre il civilissimo pubblico s’accoda senza troppe ubbie in attesa dell’imperdibile performance. Il discernimento tra un evento e l’altro pare infatti essere elemento secondario, perciò non sembra davvero il caso di perdersi in sottigliezze, tra Lella Costa o Roberto Calasso, giacché la Cultura impollina qui, come magico effluvio, ogni accadimento messo a programma. Anche il criterio di selezione dei prestigiosi ospiti si è rimodulato prudentemente negli anni, privilegiando di fatto una sorta di didattica generalista per modesti – o moderni? – alfabetizzati, marginalizzando sempre più il genio letterario in favore di una messa cantata gradevole ma piuttosto prevedibile. Come in un artificiale limbo post-borgesiano, tutto viene spezzettato, rimontato, spostato e ricollocato. Solo che di Borges qui non c’è traccia.

Si badi bene, nessuna discriminazione evidente consente di attribuire intenti partigiani alla perfetta organizzazione, bensì l’esatto più insidioso contrario: centrifugando abilmente ma senza costrutto – se non  quello autoreferenziale del Festival e dei vanitosi relatori messi sul piedistallo – tutto lo scibile e il divulgabile, quello che ne esce è un format turistico assolutamente anestetizzato, in fondo perfettamente contemporaneo, nel senso di assoggettato all’ossessione della partecipazione di massa e alla relativizzazione pianificata di ogni posizione espressa. Ci sono tutti, non c’è nessuno, un po’ come metafisicamente accade ogni anno al meeting di Rimini e in molti altri non-luoghi del pensiero. Oltre a quest’idea edulcorata di paese dei balocchi letterario, in luogo di una realtà che ribadisce un galoppante analfabetismo di ritorno, l’intorpidita atmosfera della bassa padana contribuisce per certi versi ad alimentare pose retoriche “glocal” e “sharing culture”, a forte rischio rigurgito o assuefazione. Piace molto innovare a vanvera, ma con certe strizzatine d’occhio al sempre caro passato, rassicurante e seppiato. E giù di retorica.

Come siamo belli come siamo bravi, sembrano dirsi tutti, compiaciuti nello stucchevole florilegio di occhiali inforcati e mano a sorreggere il pensoso capo. Questo nonostante gli sforzi fatti negli anni per rendere ludico e smart (orrore!) il soporifero contesto libresco. Resta un’idea liofilizzata di letteratura, la medesima che porta a citare la società liquida di Bauman senza averne letto un rigo, la stessa di quell’ottimismo un poco idiota dei damerini progressisti, quelli secondo cui la comunicazione è più importante del comunicabile. Quanto fu precursore, il finto tonto Jovanotti? Dovrebbero dedicargli quanto meno una piazza, in quel di Mantova. Alla fine, per i pochi critici, resta la sensazione fanciullesca di un ritorno con grembiulino dietro alla lavagna, laddove ai vari Manzoni, Pascoli, Verga e Carducci si sarebbero preferiti Baudelaire, d’Annunzio, Wilde, non trovandoli perché sempre inesorabilmente fuori programma. Quando si espatria dalla biblioteca privata e l’happening plaudente perpetua il rito conformista, a tutela del saggio apprendimento collettivo, l’amore per la letteratura dovrebbe farsi pericolosa tentazione individualista, sulfureo sabotaggio, voce fuori coro, piuttosto che comodo giaciglio o banco per diligenti da prima fila. Perché certo, il Festival è sempre il Festival, ma la letteratura è decisamente un’altra cosa.

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Donato Novellini

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