L’appello. Una nuova accademia non solo per riflettere ma per andare all’assalto

tricoloreL’idea della giovane cerchia di Barbadillo – incentrata nella costruzione di un’«Accademia della buona politica» da edificare grazie al cospicuo patrimonio della Fondazione An – è in sé eccellente ma, come ogni buon proposito, se mal inteso, rischia di finire in alcuni mortiferi tranelli. Ne individuerò alcuni:

1) L’ansia da prestazione può condurre al vagheggiamento della costituzione, il prima possibile, di un nuovo partito destrorso, una sorta di utopica e adolescenziale «unità dell’area». Insomma, si finirebbe così nel solito malinteso di anteporre il contenitore al contenuto. Sempreché, poi, la vecchia struttura-partito sia ancora adeguata ai tempi. Ma questo è un altro discorso.

2) La nascente accademia potrebbe rischiare d’essere intesa nella peggiore delle sue accezioni, ossia come luogo per lo sciorinamento di dotte disquisizioni ex cathedra. Al contrario, si dovrebbe pensare quest’accademia, paradossalmente, come un’“anti-accademia”, strutturata cioè in forma seminariale, dove docenti e discenti si pongano in un proficuo e mai scontato rapporto dialettico, proprio secondo la mai ben intesa concezione gentiliana dell’educazione. Dove il dibattito, cioè, non degeneri in futile «chiacchiera», ma si elevi a un confronto/scontro in grado, per così dire, di mettere le idee in movimento.

3) Da evitare assolutamente, inoltre, è di pensare l’accademia in modo settario ed esclusivo, come «luogo di destra». La società, infatti, si sta avviando gradualmente verso una divisione di campo non più orizzontale (di qua la «destra», di là la «sinistra») bensì verticale (al di sopra la cosiddetta «casta», al di sotto il «popolo»). L’esperienza grillina, pur tra le sue innumerevoli e gravi storture, sta oggi a dimostrarlo. Non c’è quindi più spazio per i ritardatari e per i nostalgici. È tempo di nuovi esperimenti, di nuove sintesi. Navigare necesse est.

Infine, e questo è l’aspetto fondamentale, bisogna intendersi una buona volta su che cosa vuol dire «cultura» o, più specificamente, «cultura politica». Per fare ciò, innanzitutto, è opportuno partire da un presupposto indispensabile: la cultura non è mai neutrale. L’antico preconcetto liberale secondo cui la scienza sarebbe apolitica e intrinsecamente neutra, del resto, non ha resistito ad alcuna controprova epistemologica degna di questo nome. Ogni forma di scienza e di cultura infatti, in quanto prodotto dell’uomo, nasce necessariamente già manipolata e indirizzata, poiché cela in sé le convinzioni, gli interessi, le passioni, il sentimento del mondo di chi l’ha prodotta.

Di qui la logica conseguenza che ogni cultura è anche e soprattutto un progetto. La scienza, cioè, non è solo un indicatore, ma altresì un fattore della realtà politico-sociale: essa non si limita cioè a descrivere la realtà, ma vuole anche produrla. Il mondo umano, anzi, appare propriamente come un terreno di battaglia al cui interno si combattono differenti culture e differenti idee di civiltà.

Ogni cultura, infatti, tenta per sua natura di dare forma al mondo e di dominarlo. Non è assolutamente vero che le ideologie anti-autoritarie, pacifiste e sedicenti emancipatrici si battono per la fine di ogni «dominio dell’uomo sull’uomo». Molto semplicemente si battono per un altro dominio, per la creazione di un altro tipo d’uomo. Proprio perché tutto, in ultima analisi, si può ridurre in questo caso ai concetti jüngeriani di Forma e Dominio, Herrschaft und Gestalt. E qui è opportuno fare attenzione a non cadere nella trappola tesa dalla Scuola di Francoforte, la quale vede ogni forma di dominio come intrinsecamente diabolica (salvo poi finire nel nichilismo realizzato). Perché ciò che realmente conta non è tanto il potere in sé, bensì il fine per il quale esso si esercita. Il dominio, ad esempio, può essere indirizzato tanto alla creazione della babele globale (uniforme, meccanica e sradicata) quanto all’edificazione di una nuova civiltà del lavoro (radicata, organica e differenziata).

Il compito della nuova accademia, dunque, non deve essere quello di istituire una placida e inutile Repubblica delle Lettere, ma di edificare una palestra di pensiero e azione. Di concepire la cultura non sotto forma di riflessione, ma sotto forma di assalto. Una cultura che sappia aprire orizzonti di senso, che mobiliti gli spiriti e le menti, che sia in grado di dare forma a una visione del mondo. Che sia capace di dare struttura a un nuovo tipo umano, il quale sta già sorgendo dalle macerie della società liquida e atomizzata, strozzato dall’usura bancaria e privato del futuro. Un nuovo tipo d’uomo che, spaesato e brancolante nel buio, non aspetta altro che d’essere dotato di una coscienza di sé e degli strumenti giusti per combattere. Perché qui, signori, non è più questione di «valori» e di slogan impolverati, bensì di volontà e di coraggio. L’unica buona cultura, infatti, è quella che sa essere una Schicksalmaschine (P. Sloterdijk), che sa concepire un destino. La vera sfida per l’auspicata accademia è tutta qui: ridare coraggio, forza e destino a tutti quegli italiani che sono stati traditi, calpestati e mortificati.

Per fare ciò, tuttavia, servono necessariamente energie fresche ed entusiasmo. È quindi fondamentale creare un’accademia che sia un polo d’attrazione di tutte le forze gagliarde, «eretiche» e non conformi della gioventù italiana. Una gioventù che è molto migliore di quanto comunemente si creda. Bisogna attrezzare un’accademia che diventi una palestra in cui questa gioventù possa misurarsi con sé stessa e acquisire le conoscenze, le competenze e, soprattutto, la tenacia in grado di trasformarla nella classe dirigente del domani. Perché il futuro è dei giovani, ed è giusto che siano loro a costruirselo.

 

*Valerio Benedetti (Roma, 1986), dottorando in Storia antica presso la Johann Wolfgang Goethe-Universität Frankfurt am Main e la Leopold-Franzens-Universität Innsbruck

Valerio Benedetti

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