Vite di cristallo non è per nulla intriso di pessimismo, anzi è una continua dimostrazione che ricominciare è possibile, sempre e comunque. Purché lo si voglia e purché si abbiano le doti personali. Ma dove l’ambiente di provenienza di Ferri emerge con la forza della sua estrema debolezza, è nel rapporto con il gruppo. Con quella che nel libro è definita la Compagnia dell’Assenzio. Che vive nell’autoconvinzione di una superiorità nei confronti del mondo esterno ma che, in realtà, è in gran parte composta di individui che sono esattamente uguali alle persone che disprezzano. Sognano Nietzsche ma la loro moralità personale è quella di una shampista (con tutto il rispetto per le shampiste). Ma nell’autocompiacimento non pensano neppure ad una rivoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe coinvolgere il mondo che loro rifuggono.
Una torre eburnea per un cenacolo di eletti? Macché. Perché l’individualismo portato alle estreme conseguenze determina anche l’impossibilità di ritrovarsi, a lungo, insieme. Dunque muore anche la Compagnia e ciascuno riprede il proprio cammino personale, ad altissime vette o nella banalità del quotidiano. Ma con l’incapacità di stare in gruppo. Ed inevitabilmente con l’incapacità di amare. Perché amare significa condividere e gli eletti della Compagnia possono condividere solo pochi attimi che non costruiscono alcunché. E se qualcuno sposta la scena dall’analisi esistenziale ai comportamenti politici di quelli che, dai vertici dei partitini annientati, vorrebbero costruire la Compagnia dell’Assenzio da presentare in politica, si accorgerà che il percorso è destinato ad essere identico a quello descritto nelle Vite di cristallo.
*Vite di cristallo di Cesare Ferri (pp 182, euro 18, Settimo Sigillo)