Artefatti. Franco Califano ovvero “tutto il resto è Vita”

Franco Califano
Franco Califano

Faccia italiana salmastra d’oltremare, filibustiere dai tipici tratti della genia mediterranea – denti bianchi e pelle baciata dal sole – Franco Califano nacque come per vezzo, come per fare lo straniero, a Tripoli, nel 1938. All’epoca la Libia era colonia dell’Impero e, nonostante la breve permanenza laggiù, qualcosa d’esotico rimase impresso, memoria di vento e sabbie funamboliche, nelle gesta avventurose del futuro cantante. Dopo aver lasciato il tristo collegio in favore di astratti corsi di ragioneria serali, al solo fine di poter vivere le magie della notte, Califano si dette ai fotoromanzi e alla poesia, con quel fare bohemien che poi sarà tradotto in “pasoliniano” a futura memoria. Ambizioni e bassifondi. Era un’altra Italia, quella, scacchiera instabile delle più accese contrapposizioni: quella tra violenza politica delle grandi utopie e quella dei piccoli rituali borghesi; l’occupazione studentesca al megafono contro Battisti sussurrato attorno al falò, il cineforum impegnato contro Pierino ed Edwige Fenech e, per l’appunto, quella dei ciclostilati contro i fotoromanzi. L’idea contro la vita, il progetto contro l’attimo, il programma contro il piacere, si potrebbe schematizzare così. Il giovane Califfo, anarca insensibile ai rituali collettivi, guitto insofferente alle ubbie intellettuali e mai pago di libertà, inizia a scrivere testi per canzoni, invero da subito capolavori: E la chiamano estate per Bruno Martino, La musica è finita per Ornella Vanoni, fino al capolavoro del 1973, Minuetto, indissolubilmente legato alla voce dolceamara di Mia Martini. Seguiranno Mina, Iva Zanicchi e molti altri, fino ai Tiromancino con la sublime Un tempo piccolo. Epilogo nazionalpopolare, intinto nella vodka. Intinto nella vita.

L’esordio in proprio (‘N bastardo venuto dar sud, 1972) sembrò più che altro un rifugio nelle confidenziali gergalità del capoluogo, l’espediente a portata di mano per metterci finalmente la faccia. Faccia di bronzo, per altro, di quelle che fanno abbassare senza impicci le mutande alle ragazze, le sottane alle madri e, allo stesso tempo, riescono ad incantare coi rimpianti le nonne, che vorrebbero offrire un caffè. Quello che poi sarebbe diventato “mestiere”, nasceva in realtà da un’innata indole vitalista: la battuta pronta, la pacca sulla spalla maschia, la generosità nel porsi all’altro, il carisma del guascone, gli applausi come antidoto alla solitudine dei randagi, la poesia di chi ha vissuto l’abisso per poi dipingerlo, la notte da esplorare e quindi, alle donne adorate, le rose più belle e fresche del mattino dopo. Rosse ed in gran numero. Fatale, accelerando con Dioniso a fianco, che giungesse qualche impiccio con la legge. “Possesso di stupefacenti”, si premurò di sottolineare la carta stampata, ovviamente menando il can per l’aia del pubblico scandalo per riprovevole condotta. “Possesso di stupefacenti doti di scrivere canzoni”, non sarebbe bastato questo, per evitare al genio le seccature tribunalizie?  Ma il Califfo non era certo uno di quei pretini col bilancino della moralità sempre pronto all’uso, nemmeno paragonabile ai moderni giullari dell’intrattenimento musicale, che di vita non sanno un cazzo. Cavalcò coraggiosamente la tigre dell’onta mediatica, pagandone le conseguenze, per rafforzare le caratteristiche del suo controverso personaggio. Maschera e volto, alto e basso, telecamere e patrie galere, ricevimenti altolocati e infimi bordelli, riconoscimenti ufficiali e transessuali in periferia. La straordinaria periferia di Roma, la vita com’era prima di essere simulata in egotismi posticci e fasulli. La vita che capita di vivere.

Resterà, per i cultori del genere, il memorabile siparietto di Romanzo criminale, nel quale il Califfo (ovvero una comparsa che ne interpreta la parte), annunciato dal Libanese come “Er mejo de Roma”, canta Tutto il resto è noia ad un matrimonio di borgata, tra scherzi, lazzi e troie blindate nei cessi. La celebrazione, vecchio stile in ristorante che pareva giusto prenotare, sorregge un doppio rituale, nel quale la banda eversiva sancisce certi patti di vita e di morte. La canzone certamente più famosa dell’artista, lì come sospesa nell’atmosfera celebrativa, è un magistrale trattato di disillusione, una fuga verso l’irredimibile, la resa dinnanzi ai giri di giostra del desiderio. Quasi un clavicembalo in apertura, aria da balera deserta e addii preventivati, con archi e tromba a fare da contrappunto, sopra i quali cadono le parole, recitate come se niente fosse, in un romanzo d’appendice della durata di quattro minuti. Noia. Noia. Noia. “Si d’accordo ma poi”, è proprio quella premessa bramosa che si fa carico di sputtanare tutto. Quel “poi” che è sinonimo di solitudine. Quel “poi” che è la vita degli effimeri incontri. Quanto Schopenhauer? Quanti fiori appassiti? Fotoromanzo musicato della fine dell’innocenza dell’amore, del barocco di agi costretti in meccaniche ripetizioni, di taverne con ospiti col bicchiere in mano. Non vedi l’ora che spariscano. Quando tutti se ne vanno, poi, si può ascoltare Califano, finalmente in pace.

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Donato Novellini

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