Musica. Rino Gaetano ribelle imprevedibile che non “reggeva” proprio nessuno

Rino Gaetano
Rino Gaetano

Il 2 giugno del 1981 lasciava questo mondo Rino Gaetano, cantautore anticonformista. Lo ricordiamo con un ritratto firmato da Marco Ciriello, scrittore che nelle sue opere riprende molte tinte libertarie dell’autore di “Mio fratello è figlio unico”

Aveva sempre bisogno di un passaggio ma conosceva le coincidenze del 60 notturno, per andare alla rivoluzione prendeva il 109 e scriveva canzoni camminando. È  morto come Fred Buscaglione, alla guida della sua auto. È stato il più allegro dei nostri cantautori, e anche il più frainteso, tanto da essere accusato di qualunquismo. Divagava e no, non reggeva proprio nessuno, Rino Gaetano, che giocava con le parole, faceva il pieno di ironia e appariva disimpegnato.

Il suo difetto era l’anticipo: almeno venti anni. Un extraterrestre della canzone italiana. Nuovo nel linguaggio e nello stile. Ribelle, anarcoide, imprevedibile. Capace di dissacrare patria e ideali. Di prendere in giro mode e potenti. Di rovesciare i luoghi comuni e cantare l’amore in modo singolarissimo. La sua opera è nonsense e sberleffi, ma anche improvvise ruvide irruzioni neorealiste. Era uno da bar, che beveva birra chiara in lattina e ascoltava discorsi e lamenti. Tirava tardi la notte, non giocava a dama, e no, non si è mai montato la testa. Forse non si è nemmeno accorto della sua genialità. Attento ai cambiamenti, sensibile alle sofferenze, ma defilato. Un timido costretto al palco, fosse stato per lui si sarebbe limitato a scrivere, si considerava un autore non un cantante. Diceva di non essere adatto al mondo dello spettacolo. Per fortuna non è andata così, grazie ad Antonello Venditti (produttore del suo primo singolo) e al discografico Vincenzo Micocci: «quando fu l’ora di incidere il primo album, venne a dirmi che sarebbe stato meglio far cantare le sue canzoni da un amico. Io, naturalmente, mi misi a ridere e lo mandai in studio». L’album era “Ingresso libero” (che non andò bene), prima c’era stato un singolo, con lo pseudonimo di Kammamuri’s, citazione-omaggio a un personaggio, l’indiano Kammamuri, de “I Pirati della Malesia” di Emilio Salgari. Una scheggia d’adolescenza che andava a mascherare la timidezza. Come la prima canzone “I love you Maryanna” (1973), che univa la lady Marianna salgariana, la nonna calabrese di Rino che aveva lo stesso nome e la marijuana, ma prendeva anche in giro gli innamorati di mezza Europa.

Rino Gaetano

Stupiva il ragazzo calabrese, era ingenuo,  non si stimava ma aveva talento, e si divertiva col sorriso a raccontare storie in musica. Filastrocche, avvolgenti, figlie di Ionesco, difficile coglierne il senso al primo ascolto. Ti fregava con lo spettacolo, con l’incanto del gioco, la rima, il circo, lo sberleffo, e sotto, dopo, scoprivi che aveva cuore, ma soprattutto rabbia. «Raffinato, raffinatuccio», come dirà il suo compagno di viaggio Francesco De Gregori, ma non capivi subito. Un Petrolini rock, uno Jannacci senza nessuna serietà, una specie di Gaber giovane, un Buscaglione meno spavaldo. Insomma uno strano cantautore, che veniva dal teatro e aveva una vena di sarcasmo inesauribile, contenuta a malapena dalle canzoni. Ogni sua uscita spiazzava. Ogni sua apparizione in tv uno spettacolo, tre minuti di sorprese per l’Italia triste delle P38. Era il 1974, quando “Tu, forse non essenzialmente tu” passa nelle radio perché Renzo Arbore e Gianni Boncompagni se ne innamorano, inserendola stabilmente nella scaletta della loro trasmissione: “Alto gradimento”. Rino Gaetano non è in testa alle classifiche, non potrebbe, il suo è un mondo diverso. Per la cima bisogna aspettare il singolo dell’anno dopo: “Ma il cielo è sempre più blu”, diviso in due parti, una più esilarante dell’altra. Sono in molti a canticchiarla e a fischiarne il motivo. «Ci sono immagini tristi o inutili, ma mai liete, in quanto ho voluto sottolineare che al giorno d’oggi di cose allegre ce ne son poche ed è per questo che io prendo in considerazione chi muore al lavoro, chi vuole l’aumento. Anche il verso “chi gioca a Sanremo” è triste e negativo, perché chi gioca a Sanremo non pensa a “chi vive in baracca”». L’anno dopo arriva il suo capolavoro: “Mio fratello è figlio unico”, sulla copertina del disco c’è un cane contrito, intimidito dalla luce di un riflettore, quasi prigioniero. La canzone che da il titolo all’album, è uno spettacolo irripetibile. I suoi versi possono raccontare un mondo, ancora oggi. “Mio fratello è figlio unico perché è convinto che Chinaglia non può passare al Frosinone, perché non ha mai pagato per fare l’amore, perché non ha mai criticato un film senza prima vederlo, perché è convinto che anche chi non legge Freud può vivere cent’anni”. E deve anche giustificarsi: «Dire che mio fratello è figlio unico perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati, i malpagati e i frustrati non è demagogia». In tv si presenta a cantarla con un cocker in braccio e al conduttore dice: «ti offro la possibilità di intervistare due cani anziché uno». Il cane come emarginato, tornerà in un’altra canzone surreale, qualche anno dopo: “Escluso il cane”, appunto, «il cane, più prende bastonate più ti è fedele: una figura politicamente assurda per i tempi che viviamo».

In quegli anni Rino Gaetano è incontenibile, e dà il meglio disegnando un mondo-musica paradossale. Non ha la tristezza degli altri cantautori, in più è irriverente fino all’assurdo, nascono così canzoni bellissime e anche figure femminili indimenticabili: dalla Berta che filava la lana e l’amianto del vestito del santo, a Maria rimpianta ma non troppo da Baja, passando tutti dal letto di Lucia, a Bice amata da chi canta canzoni, a Cristina scambiata per un litro di benzina, all’altra Maria: la femminista e alla sua festa, a quelle che si fanno attendere tanto da aprire uno squarcio spazio temporale che la fantasia di Rino Gaetano riempie di eventi eccezionali in “sfiorivano le viole”, fino ad Aida che «non è una donna, ma sono tutte le donne che raccontano, ognuno per cinque minuti, la propria storia. Ne viene fuori la storia degli ultimi settant’anni d’Italia», ma la sua donna più famosa è la disinvolta Gianna che passa da un estremo all’altro, portata a Sanremo nel 1978. Sul palco stupisce ancora, si presenta stringendo fra le mani l’ukulele, una chitarrina hawaiana, indossando frac, cilindro, papillon bianco, sotto ha una maglia a righe da marinaio, e ai piedi Mecap, scarpe economicissime e molto diffuse all’epoca, al petto una serie di medaglie che poi distribuisce in giro. La canzone fa il resto, orecchiabile, immediata, divertente. Arriva terzo, e vende tantissimo. Tutti lo conoscono e confondono, identificandolo col pezzo. Tanto che lui dichiara: «è un caso più unico che raro nella mia produzione, un’anomalia. Sanremo non significa niente e non a caso ho partecipato con Gianna che non significa niente». Ed ha ragione, perché con Gianna escono “Nuntereggae più”, “Capofortuna”, “Fabbricando case”, pezzi arrabbiatie sottili, che solo anni dopo verranno apprezzati e compresi appieno. «Ma chi me sente?…E allora amore mio ti amo, che bella sei vali per sei, ci giurerei, sei meglio tu». Se mai qualcuno lo capirà, saranno quelli come lui, che ascoltano i suoi dischi sorridendo, che non amano i servi di partito e i politici imbrillantinati, che sognano una stella ed un veliero che li portino su isole dal cielo più vero, e ti amo Mario.

È morto la notte del due giugno dell’ottantuno sulla Nomentana a trentuno anni, solo, al volante della sua Volvo. Un malore o un colpo di sonno lo porta sulla corsia opposta. Dopo l’impatto perde i sensi, va in coma. Doveva essere operato d’urgenza, ma non c’era posto, come aveva immaginato in una canzone: “la ballata di Renzo”, indovinando anche i nomi degli ospedali che lo rifiuteranno. Saranno in molti a leggere nei versi delle sue canzoni frasi profetiche (come quelle della ballata), a scorgere immagini affascinanti, anticipazioni del nostro cattivo costume e degenerazioni del carattere nazionale, fino a farne un santo. Non lo era, piuttosto un fuoriclasse, un genio sregolato, che è sopravvissuto, come era giusto, al resto di quelli con più prosa che poesia.

@barbadilloit

Marco Ciriello

Marco Ciriello su Barbadillo.it

Exit mobile version