Calcio. Perché la Roma bella, effimera ha battuto ma non vinto la Juve

Nell’arena dell’Olimpico, Pirro, per l’occasione, si è tinto di giallorosso, nelle fila romane. E Roma-Juve, la battaglia del Sublime, è diventato un matrimonio di esaltazione e amarezza.

La mugugnante platea, innervosita alla vista del carro bianconero dei vincitori, ha chiesto ben più del trito e ritrito panem et circenses. Ed è stata accontentata con una sonora vittoria che, però, forse fa ancora più male di una sconfitta.

La Juve non è imbattibile?

Molli e scanzonati, gli uomini di Allegri affrontano gran parte dello scontro con superficialità e – troppe? – seconde linee. Riuscendo, però, comunque a sbloccarla con un’incursione vincente di Lemina, imboccato dal solito killer Higuain. Dopo i venti minuti, però, il nulla (o quasi): gli automatismi e il solito agonismo invincibile si fanno da parte per il leitmotiv del fraseggio lento e dell’ostentazione catenacciara, che finisce per tuzzare contro l’orgoglio (di Spalletti in primis: “Usate la testa!”) romanista, trafitto nel kléos. Il capopopolo De Rossi pareggia subito i conti con zampata d’esperienza, chiamando tutti all’assalto. Nella ripresa la musica cambia, la Roma si riversa nella trequarti avversaria con un liquido 4-2-4 (con Rudiger ed Emerson Palmieri in costante proiezione offensiva): El Shaarawy, incantatore di serpenti, fa del flauto i suoi scarpini indovinando l’angolo. E il solito inviperito Nainggolan dà il colpo di grazia alla Zebra (che prova a riprendersi solo alla fine buttando nella mischia i titolarissimi), firmando il tre a uno e chiedendo alla folla urlante se, finalmente, sia soddisfatta. Dalla festosità baccante si direbbe di sì, ma dopo secondi di giubilo, ogni singolo spettatore – lungi dall’accontentarsi di aver messo in cassaforte il secondo posto – si chiede: “Ma allora era davvero così difficile superare la Juve?”. E torna la malinconia e il coro di una canzone triste triste triste, per dirla come Graziani: “Ne abbiamo avute di occasioni, perdendole…”

“Pirro è vivo e lotta insieme a noi”

Tutta la Roma è stata Pirro per una notte effimera. Pirro è stato l’arrabbiato – e forse partente – Spalletti, che ne esce vincitore sulla carta, ma sconfitto perché fischiato da tutto lo stadio, feroce espressione della volontà popolare. Pirro è stato De Rossi, capitano che non è capitano che forse si è abituato ad aspettare Godot. Pirro è stato il Faraone, giocoliere mai davvero consacrato e forse condannato (prigioniero, lontano dalla sua Cleopatra) a siglare gol mai davvero determinanti. Pirro è stato Nainggolan, acerrimo nemico della Juve, che vorrebbe battere anche in classifica: quello vorrebbe dire mangiare la polvere. E Pirro, più di tutti, è stato il Pupone, entrato a tre minuti dalla fine per una vespertina passerella, senza toccare palla. Non si è goduto neanche la (apparentemente) felice vittoria: finita la partita – e l’umiliazione? – è scappato negli spogliatoi, evitando i festeggiamenti sotto la Curva e fulminando, sempre meno sornione, Spalletti. Il grande gelo.

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Obafemi Martins

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