Artefatti. L’Eco di Marguerite Yourcenar nell’Opera al Nero rimasta nel buio

yourcenarL’opera al nero, romanzo di Marguerite Yourcenar pubblicato nel 1968, può essere definito un raro esempio di letteratura moderna a tema esoterico. Togliendoci subito d’impiccio i dozzinali sottoprodotti ad uso allochi (Dan Brown ed epigoni), l’unico raffronto possibile resta quello con Il nome della rosa di Umberto Eco. Bel derby alchemico, in effetti: entrambi i testi, sfruttando la comoda dicitura “romanzo storico”, in realtà vanno ad indagare qualcosa di profondo e ancora attuale, ovvero la solitudine dell’umana sapienza, la libertà di pensiero circondata dalla stoltezza generalizzata e belante, vessata dalla violenza dell’ubbidienza automatica, dal conformismo degli annuenti. Dalle leggi. Entrambe le opere possono vantare una trasposizione cinematografica degna di menzione. Capolavoro il film di Jean-Jacques Annaud (1986), con Sean Connery nel saio di Guglielmo da Baskerville; meno eclatante L’oeuvre au noir (1988) di André Delvaux, con protagonista un magnetico Gian Maria Volonté, assai sforbiciato rispetto al libro. A margine, sarà d’uopo citare L’arcano incantatore (1996) di Pupi Avati, prezioso incantesimo autarchico, affine per iniziatica fascinazione: Impero di libri proibiti e fabbrica delle ostie, candele nel buio, sacramenti e maledizioni.

L’autrice de Le memorie di Adriano, pur omaggiata in vita da alti riconoscimenti ufficiali, risulta però meno apprezzata del dovuto, certamente in disparte rispetto al sempre osannato Eco; forse per via delle tematiche non proprio progressiste, forse perché nei suoi libri non v’è traccia d’asservimento alle minutaglie ideologiche, forse a causa di una pericolosa autonomia di pensiero, sorretta da un esteso sapere; tant’è che oggi, nel culturale mondo dei balocchi, non trova collocazione adeguata. Agli anestesisti dell’informazione, in camice bianco e lavagnetta dei buoni e cattivi, conviene certo soprassedere: quel pensiero lavorato di fino, in nordica solitudine, quel sapienziale incastro perfetto di Oriente e Occidente, oggi sembra lettera morta, crudele nostalgia dacché il progresso si è fatto totalitario megafono, togliendo senso a parole, cose, vite. Viviamo certamente nel peggiore dei mondi possibili, un babelico supermarket dove vige una sola logica, quella dell’ammiccamento ruffiano. Per vendere. Per comunicare poco più di nulla. Per ricamare all’uncinetto un maglioncino con gli orsacchiotti e farne un libro. Così come Jean Genet, Céline, Ezra Pound, Mishima (al quale Yourcenar dedicò l’intenso saggio Mishima o la visione del vuoto, 1981) la scrittrice franco-belga sfugge ai criteri riduzionisti della nostra epoca, fondata sulla battuta sterile e sui motteggi; non si può utilizzare per fini didattici, perché va letta e non spiegata.

Basti questo lungo stralcio, per comprendere: “L’uomo di sinistra, conformemente al suo credo, manifesta la sua fede non in un certo progresso, ma in un progresso certo, il che è più grave, e lo fa assomigliare ai primi cristiani che credevano a un prossimo ritorno del Signore in terra, alla parusía. In questa nostra epoca, in cui il progresso tecnologico si è costantemente accompagnato a catastrofiche calamità, sarebbe un atteggiamento fideistico alquanto ingenuo. Ma in che cosa è diverso l’uomo di sinistra, ottimista a ogni costo, dal capitalista di destra che anche lui sogna il progresso, o quanto meno lo sognava fino a ieri? Ogni volta che vado in un supermarket, cosa che del resto mi succede di rado, mi sembra d’essere in Russia. È lo stesso cibo imposto dall’alto, assolutamente uguale in ambedue i sistemi, con la sola differenza che qui i prodotti sono imposti dalle multinazionali e là da degli organismi statali. In un certo senso, gli Stati Uniti sono altrettanto totalitari dell’URSS, e in ambedue i paesi, come del resto dappertutto, il progresso (vale a dire l’incremento del benessere umano immediato), o semplicemente il mantenimento dello statu quo presente, dipende da strutture sempre più complesse e sempre più fragili. Come il beato umanesimo del borghese del 1900, il progresso a getto continuo è un sogno che appartiene al passato.” (Ad occhi aperti, 1982)

Un cognome (Crayencour) anagrammato spostando le lettere e sacrificandone una, vita amorosa intensa, molto irregolare – lesbica amante di maschi omosessuali -, gagliarda dedizione all’alcol, cosmopolitismo da donna emancipata, ma con celtiche origini alle quali far ritorno, modernista e al contempo ancestrale. Si capisce, non il soggetto più idoneo per l’album di figurine dei festival letterari. D’altronde L’opera al nero uscì proprio nell’anno simbolo delle contestazioni. Un libro desueto, come gran parte della poetica dell’autrice in totale controtendenza rispetto alla retorica imperante. Si narrano le vicende di Zenone, dotto alchimista, immaginaria figura ispirata a Tommaso Campanella e a Paracelso. C’è la meravigliosa Bruges del ‘500 sullo sfondo, epicentro di scambi commerciali e luogo altamente simbolico dello scontro epico tra passato (il medioevo) e futuro (l’umanesimo rinascimentale). Zenone, tipo umano superiore e incarnazione della trasformazione nel piccolo come nel grande, porta il fardello di un gran sapere; è l’ermetico passaggio cromatico della Grande Opera. Nigredo, Rubedo e Albedo, rappresentano gli stadi di mutamento verso la perfezione, ciò sfruttando un camuffamento “materiale”, il codice chimico che nasconde la spogliazione dell’ego nel donarsi al prossimo. Così la vita del protagonista diventa grande metafora “pontificale”, tra esoterica memoria e mondo nuovo della tecnica. Così pure si vince il derby con Umberto Eco: lasciando credere che quel relativismo fine a sé stesso, mezzo Sherlock Holmes e mezzo Voltaire in vacanza medievale, possa rappresentare altro da una stanca glorificazione del progresso, viziata peraltro da preconcetti illuministi. Marguerite Yourcenar ci offrì dubbi coraggiosi, non sentenze ideologiche mascherate da “romanzo storico”.

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Donato Novellini

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