Libri. “Ribelli d’Italia” di Buchignani e la rivoluzione secondo Evola

Julius Evola
Julius Evola

Paolo Buchignani, storico del Novecento italiano, si è occupato nei suoi precedenti lavori delle correnti rivoluzionarie emerse nel panorama politico nazionale. In particolare, è considerato uno dei maggiori conoscitori della sinistra fascista, avendo indagato la figura di Berto Ricci e i “fascisti rossi”. La lettura della sua ultima fatica, ha suscitato in noi vivo interesse per il tema trattato, anche se, è bene esplicitarlo fin d’ora, non condividiamo l’assunto fondamentale che sostiene le argomentazioni presentate dall’autore. Ci riferiamo al volume, Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alla Brigate rosse, che l’editore Marsilio ha da poco distribuito nelle librerie (euro 19,50). L’autore, con Pietro Scoppola ed altri intellettuali “riformisti” ritiene che: “Il problema[…]della fondazione della democrazia era ed è costantemente quello di uscire dalla cultura della rivoluzione” (p. 14). A chi come noi pensa, al contrario, che nella congerie storica contemporanea si stia manifestando una crisi profonda del sistema liberale, del parlamentarismo rappresentativo ed auspica, sulla scorta della lezione di de Benoist, la costruzione di una “democrazia organica”, questa si, sul modello della civiltà classica, davvero rappresentativa e partecipativa, un’affermazione siffatta appare fuorviante. Siamo convinti che parte della tradizione di pensiero criticata da Buchignani, afferente all’ala “destra” dell’ideologia italiana, possa essere utilizzata per una positiva critica dello stato presente delle cose e per costruire un futuro diverso dalla mestizia dell’oggi.

La copertina del libro di Buchignani

Nel libro, sia chiaro, l’autore attraversa e discute in modo organico e persuasivo, servendosi di una messe di documenti e testimonianze rilevanti, il pensiero politico rivoluzionario italiano da Mazzini agli anni Settanta del secolo XX, gli anni tragici del terrorismo. Lo fa riuscendo a coinvolgere il lettore nel narrato, grazie alla vivacità della prosa delle sue pagine che non conosce la pesantezza tipica della saggistica accademica. Buchignani sostiene che l’idea di rivoluzione come palingenesi, radicatasi nell’immaginario collettivo in termini definitivi alla fine del I conflitto mondiale, ha tratto origine dal lavoro di intellettuali di formazione letteraria, senza competenze istituzionali specifiche. L’origine giacobina connota di sé l’élite intellettuale, che si sente latrice di un’azione salvifica antiborghese, in nome dell’ uomo nuovo e dello Stato nuovo. A tali presupposti, fin dall’inizio, si accompagna l’idea della rivoluzione “tradita”. In Italia, l’idea del Risorgimento quale progetto realizzato a metà a causa del diplomatismo cavouriano-sabaudo, emerge con Mazzini e viene riproposto in La lotta politica in Italia e in La Rivolta ideale di Alfredo Oriani.
In Oriani, la visione mazziniana “si potenzia e si evolve adattandosi alla situazione post-risorgimentale e acquistando quella[…]flessibilità che le consente di penetrare e[…]condizionare culture e forze politiche diverse” (p. 21). Sua è la convinzione che ciò che era stato iniziato nel Risorgimento, sarebbe stato completato da una nuova aristocrazia dello spirito. Tale risoluta asserzione segnò il clima spirituale, dapprima, dell’avanguardia scapigliata delle riviste e poi dell’intero interventismo italiano. Dal “lavacro di sangue” del conflitto sarebbe sorta un’Italia diversa da quella imbelle rappresentata dal giolittismo e, con essa, una nuova élite.
Il convincimento avrebbe irrorato di sé gli ambienti politici-intellettuali che realizzarono il fascismo, in particolare la tendenza movimentista di quest’ultimo, sempre incline ad accusare di tradimento le gerarchie del partito, dimentiche dell’autentica anima socialisteggiante del programma sansepolcrista. L’ideologia italiana si affermerà anche nella revisione nazional-popolare del determinismo marxista tentata da Antonio Gramsci che, come notò Augusto Del Noce, intrattenne, non casualmente, un colloquio intellettuale intenso con l’immanentismo gentiliano. Il fondatore del PCI sostenne che “La missione del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medievale, ma nella sua forma più moderna ed avanzata” (p. 25). Per non parlare di Piero Gobetti, severo assertore di un liberalismo operaista. L’intellettuale piemontese attribuiva un significato religioso all’occupazione delle fabbriche del 1920 e può essere considerato uno degli assertori delle “religioni politiche” neo-gnostiche, per dirla con Eric Voegelin.
Nel fascismo fu Bottai, suggerisce Buchignani, a cogliere la stretta relazione che unisce l’idea di popolo, inteso come comunità organica, e le sue guide politiche “L’élite[…] è il tipo attraverso cui la massa si manifesta” (p. 36). Tutti costoro considerarono l’Italia un “laboratorio politico” della rivoluzione. Dopo il crollo del fascismo, l’istanza rivoluzionaria dell’ideologia italiana, divenne vessillo del partito comunista che, attraverso la conquista gramsciana della società civile, mirava a realizzare la “rivoluzione culturale”. Ciò spiega il tentativo perpetrato scientemente dai vertici del Pci, Togliatti in testa, coadiuvato da Giancarlo Pajetta, di avvicinare i giovani salotini, gli orfani di Berto Ricci che, come Stanis Ruinas, non potevano condividere la scelta atlantista e moderata, di inserimento nel sistema, compiuta dal MSI di Michelini. L’autore ricostruisce le idealità della sinistra missina, le vicende del quotidiano Il Pensiero nazionale fino al suo epilogo. Sostiene non essere stato casuale che gli intellettuali vicini a Ricci e a L’Universale nel dopoguerra mettessero in atto, in continuità con l’idea rivoluzionaria dell’ideologia italiana, il passaggio nelle fila comuniste. Anni dopo, a seguito della scelta entrista del PCI, i sessantottini rappresentarono la variante “libertaria” dell’idea rivoluzionaria. Variabile che covava in sé i germi tragici della lotta armata contro lo Stato borghese al servizio delle multinazionali, che segneranno di sangue la storia italiana degli anni Settanta.
Buchignani si intrattiene anche sull’altro movimentismo sorto nel MSI, quello della destra evoliana. Pur all’interno di giudizi, il più delle volte obiettivi, è necessario registrare delle inesattezze. Ad esempio quando sostiene che “Ordine Nuovo” era “prossima all’ideologia nazista, cui la riconduce il decisivo magistero di Evola” (p. 319). Come sa chiunque abbia letto l’opera di Evola, questi non risparmiò critiche profonde al nazismo e non incitò mai alla violenza per difendere “spazi ed identità” (p. 321). Anzi, fu accusato di indurre i giovani che lo leggevano al disimpegno politico, invitandoli a lavorare su se stessi in termini spirituali. E’ vero, le rivoluzioni hanno prodotto drammi, ma le politiche liberticide prodotte dalla governance, figlia naturale delle liberal-democrazie e delle social-democrazie, rappresentano una forma di totalitarismo ancora più pervasivo. Proprio attorno all’idea evoliana di Tradizione è possibile riunire quanti intendano battersi contro la realtà attuale. Ribelli d’Italia unitevi!

*Ribelli d’Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alla Brigate rosse, di Paolo Buchignani (Marsilio, euro 19,50)

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Giovani Sessa

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