Libri. “Un partigiano in camicia nera”: la storia di Uber Pulga raccontata da Alessandro Carlini

La storia di Uber Pulga
La storia di Uber Pulga

Pubblichiamo un estratto del libro “Un partigiano in camicia nera”, di Alessandro Carlini, giornalista Ansa e scrittore. Si tratta di una storia comune a tante famiglie italiane che custodiscono la memoria delle divisioni dolorose della guerra civile 1943-1947

Il mio nome è Uber Pulga

Il suo nome compare fra quelli dei caduti per la Liberazione e quelli della Repubblica sociale. A Felonica (Mantova), dove è nato e nel cui cimitero ora riposa, sopra l’ingresso del Comune c’è una lapide che lo ricorda come «partigiano», morto col grado di sottotenente. Nei libri della pubblicistica fascista è considerato un caduto repubblichino. E ancora, il suo nome compare nelle liste dei partigiani di Mantova. Nel giugno del 2011 è stato celebrato come un eroe di guerra dai suoi compaesani, con tanto di cerimonia solenne. In provincia di Parma il suo nome è fra quelli dei disertori fucilati dalla Rsi per aver scelto di unirsi alla Resistenza. Se da Mantova si passa il Po e si arriva a Reggio Emilia, il suo nome è coperto dall’infamia e la sua storia è ricordata come quella di una scaltra e feroce spia fascista, responsabile della morte di due partigiani. In pochi chilometri l’uomo di cui mio nonno mi raccontò la vita con passione e anche una profonda malinconia è considerato un repubblichino e un patriota, un carnefice e un martire per la libertà. Chi era Uber Pulga?

Prima di tutto un membro della mia famiglia, il cugino di secondo grado di mio nonno, Franco Pulga, che si è spento alle 14.30 dell’8 giugno 2005 in una camera dell’ospedale Sant’Anna di Ferrara, reparto di ematologia. Il cancro al cervello gli aveva tolto tutto: prima la lucidità, poi la possibilità di muoversi, la parola e, con essa, le tante storie di cui era stato testimone.

Quando ho messo piede in quella stanza ho capito che stavo toccando con mano qualcosa di infido e oscuro. La morte entrava di prepotenza nella mia vita e mi sor- prendeva intimorito e vile. Mi sono avvicinato al nonno in agonia, temendo che non riuscisse a vedermi né a sentirmi. Ho allungato una mano sulla sua. Era fredda ma non ancora gelida.

«Franco, è arrivato Alessandro.» Mia nonna, che stava al suo fianco, mi aveva annunciato come se lui fosse in un’altra stanza, o al piano di sopra, o fuori, ancora a lavorare nei campi.

«Nonno eccomi, sono qui» gli ho sussurrato. Ero terrorizzato da quel rito familiare al quale non potevo sottrarmi. Volevo mio nonno, il mio nonno contadino, che aveva abbandonato presto la scuola per occuparsi dei campi ma aveva continuato tutta la vita a divorare libri su libri con la fame di chi non ha potuto studiare. Volevo Franco Pulga, che mi aveva trasmesso l’amore per la Storia grazie alle storie che mi aveva raccontato, umane e straordinarie.

Niente era più così. Franco non parlava nemmeno, soffriva e basta. Quel tumore dal nome impronunciabile e maledetto lo stava portando via. Divorava piano piano tutti i racconti, tutte le date, i nomi, i particolari sugli uomini del tempo di guerra. Soldati e generali, eroi e vigliacchi, volontari e disertori, fascisti e comunisti, tede- schi e americani. Tutto il suo mondo stava per perdersi.

Non ho visto il nonno morire.

L’ultima volta che ci siamo parlati come ai vecchi tempi è stato a marzo di quell’anno, solo pochi mesi prima. L’effetto del cortisone gli aveva dato la possibilità di riprendersi per qualche giorno la sua vita, di tornare quello di sempre, l’uomo che rideva, scherzava, urlava e bestemmiava quando qualcosa non gli andava bene o per dare più forza alle sue idee. Ma spaventava solo chi non lo conosceva.

Quell’ultimo giorno abbiamo discusso di tutto, forse sapendo che non ci sarebbero state altre occasioni. E abbiamo parlato della storia più importante, che unisce le vicende della mia famiglia a quelle della Seconda guerra mondiale. Il protagonista è lui, Uber, classe 1919, sottotenente della Repubblica di Salò, fucilato a venticinque anni dai suoi stessi soldati per diserzione e alto tradimento. Ammazzato dai suoi, i bersaglieri repubblichini della divisione Italia, dopo un processo sommario. Uber Pulga, un pluridecorato che aveva creduto nel fascismo combattendo all’estero e in Italia per Mussolini, nel Regio esercito prima e in seguito unendosi alla Rsi. Poi, all’inizio del 1945, qualcosa doveva essersi rotto e Uber era diventato uno di quegli eroi che vanno contro, come li chiamava il nonno. Altri dell’esercito di Salò, prima o dopo di lui, avevano fatto lo stesso, ma Uber quella scelta coraggiosa l’aveva pagata con la vita. Cosa era successo nella sua testa? Perché aveva messo tutto in discussione?

La mia famiglia custodiva con grande cura alcuni documenti: il foglio matricolare degli anni da caporale del Regio esercito; la lettera del cappellano militare della divisione Italia, l’uomo che lo aveva accompagnato al patibolo; l’atto di morte del parroco di Gaiano, in provincia di Parma, che lo aveva seppellito. Mancavano tanti particolari e c’era una lacuna di due anni, dal 1943 al 1945. Che cosa aveva fatto in quel periodo Uber Pulga?

* Il partigiano in camicia nera di Alessandro Carlini (Chiarelettere)

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Alessandro Carlini

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