Libri. Dalla rivoluzione alla mercificazione: “La vita sconosciuta” (e vaga) di Crocifisso Dentello

Una immagine del film The dreamers
Una immagine del film The dreamers

Vaga si dice di cosa non ben definita, lasciata nell’incongruenza di senso e scopo. Vaga è la vita di Ernesto e Agata, personaggi in presenza e in absentia, del romanzo di Crocifisso Dentello “La vita sconosciuta” (La Nave di Teseo, 2017). Ancor più vaga è la scrittura, persa in un labirinto di immagini a metà tra realismo e intimismo. Crocifisso Dentello racconta la storia di un lutto. Ernesto, rincasando da un incontro di sesso a pagamento, trova sul divano il corpo senza vita della moglie Agata. La morte chiude due vite, come spesso accade in questi casi: la vita di Agata fatta di rinunce e di rancori, di povertà e disillusioni e la vita di Ernesto, che le rinunce, la povertà e le disillusioni ha centrifugato dentro il senso di colpa. Centrifugato, letteralmente.

“Piangevo e guardavo i miei poveri stracci vorticare dentro la lavatrice che avevamo acquistato insieme al Gigante di Cinisello Balsamo…Quando la centrifuga finì e il bagno ripiombò nel silenzio, un nodo di angoscia mi risalì in gola…Ripresi a singhiozzare più forte di prima e, ricolmo di una tristezza che ora si convertiva in rabbia, anziché riporre i panni umidi di lavaggio sullo stenditoio, li rovesciai sul pavimento e presi a calpestarli con le ciabatte… Quando mi sembrò di averli resi sufficientemente sporchi e inservibili, li rinfilai nel cestello e feci ripartire la lavatrice. Restai seduto e immobile, con gli occhi incollati sull’oblò per tutto il tempo del lavaggio, e pian piano avvertii i nervi distendersi

Per Ernesto la catarsi per medium casalingo non arriva, il lettore invece vortica nel cestello delle parole sperando alla fine di riposarsi sullo stenditoio del punto finale.

Piovono similitudini e metafore dentro la storia di Ernesto la cui giovinezza “procedeva immutabile con la stessa fatale monotonia degli asini che tirano la macina” (tributo verista) e di Agata, due rivoluzionari diversamente consapevoli, irretiti dalla dottrina di Faenza – prototipo del brigatista anni’70: piccolo borghese, studente di filosofia fuori corso, ex Lotta Continua-, magnetico nello sguardo e nelle parole

“Quello che diceva- concetti che infilava nel becco a noi uccellini implumi nel nido- non scivolava indolore ma smuoveva un fermo nel cuore

Il romanzo assembla materiale narrativo con un’idea di base anche interessante: narrare la periferia dell’anima e della storia, il luogo reietto e degradato in cui entrambe restano schiacciate e sporche. Gli anni ’70 in Italia rappresentano la stagione del terrorismo, il brodo primordiale di tutte le incongruenze del presente. Una pagina di Storia che pochi vogliono davvero leggere e che annullano nell’opposizione d’antan fascista-comunista. Quegli anni (Ernesto e Agata si incontrano nel 1977) hanno segnato una generazione di padri inconsistenti e irrisolti, che falliscono l’esistenza perché fallirono la rivoluzione. Ernesto racconta quell’irresolutezza, quel magma d’incapacità e di furore che muore dentro la rivoluzione proletaria fallita e diventa il covo dell’anima sua, quella sconosciuta ad Agata. Nei rimandi tra passato e presente (il protagonista ha cinquantanni), l’io di Ernesto narra e si analizza, verbalizza in una lingua caotica dolore e senso di colpa. Colpa per aver tradito amore e lotta. Un dolore, il suo, probabilmente insincero perché coperto dal rimorso di aver consumato, proprio nelle ore in cui Agata moriva, l’ennesimo rapporto omosessuale con un ragazzo arabo in un parco. La mercificazione del corpo è il rovesciamento del rifiuto della merce che sta alla base della rivoluzione marxista, la prigionia del segreto dell’abiezione sessuale stride con il desiderio della libertà dell’amore che la “sintassi rivoluzionaria” proclamava.

Nel romanzo l’idea c’è. Il problema sta nella resa stilistica e nell’oleografia dei personaggi. Di Agata soprattutto. Personaggio riesumato da Ernesto in un’inaccettabile e alquanto scontata rappresentazione di figlia del Sud, graziata forse solo da un’espressione “in lei bruciava la ferita di un sogno infranto”. E ancora assai prevedibile la rappresentazione di Milano come con ovvietà di immagini è reso scandaglio del mondo della prostituzione degli immigrati. Sembra strizzare l’occhio a Pasolini ma il gusto del degrado di Dentello è lontano anni luce dallo scavo carnale dei ragazzi di vita.

Nei loro occhi, pure addomesticati dalla vita occidentale, mi pareva sempre di leggere una furia appena trattenuta, la stessa furia che animava i loro fratelli kamikaze”.

Neppure il lessico esplicito dei membri in erezione sposta sul piano del realismo letterario la scrittura che resta goffa e artificiosa. Per citare lo stesso Dentello:

Non sapevamo che farcene di tutta quella sintassi inerte che non si tramutava in sommossa”.

*“La vita sconosciuta” di Crocifisso Dentello (La Nave di Teseo, 2017)

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Daniela Sessa

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