Artefatti. Una vita Disciplinatha per combattere la noia paesana dei moralisti

disciplinatha (1)“Non siamo di destra, anzi, siamo buoni”, questa la beffarda risposta che il combo indipendente Disciplinatha riservò alle geremiadi moralistiche e petulanti della critica rock, a quel muro di gomma che l’establishment culturale eresse inflessibilmente, come cordone sanitario, attorno a loro. Musicisti bravi e innovativi, certo, ma infrequentabili, inaccettabili, reietti, in una parola: fascisti. Ciò a causa di scelte estetiche che riprendevano l’iconografia del Ventennio, abbinandole ai simboli del consumismo, ma anche a ragione di testi che ribaltavano beffardamente la questione, ponendo il regime democratico nel mirino delle invettive. Dov’era veramente il fascismo – inteso come potere liberticida – se non nella viscida e giudiziosa prosopopea democratica? Nei divieti riguardo ad un’espressione artistica non conforme, nei boicottaggi quando tutto ed il contrario di tutto era consentito? Nelle censure per paura di? Qualcosa non andava fatto, loro lo fecero. Il fascino del proibito, l’avanguardia che si spinge oltre il tollerabile, un destino già segnato dietro alla lavagna: le immagini della strage di Bologna sovrapposte allo spot di lamette da barba. Guardare in faccia l’abiura collettiva, l’amnesia di massa. Si badi bene, erano altri tempi, anni a cavallo della caduta del Muro di Berlino: punk e new wave erano morti e sepolti, le ideologie novecentesche s’apprestavano a gettare la spugna anche formalmente, con un dimesso inchino al nuovo sol dell’avvenire, ovvero alla tirannia del profitto. Restavano solo briciole per piccioni (il grunge, certo crossover), le comode opinioni degli asserviti, col giusto distintivo in bella mostra. Il contesto, direbbero i dotti: il contesto è importante. Il contesto fu il vuoto omologante. Difatti non siamo in una propaggine dei Campi Hobbit, non siamo né dalle parti della musica identitaria, né da quelle del cantautorato folk “per essere come i coetanei di sinistra”: siamo da nessuna parte. Siamo in un limbo d’alterità che fa caso a sé.

La storia dei Disciplinatha nasce a Bentivoglio, nell’anestetizzata provincia bolognese. Ragazzi di paese, forse annoiati dal “pacchetto completo” offerto dal Partito. Dicevano, gli assessori alle varie ed eventuali: “il problema dei Giovani”, segue circolo Arci, birra dopo il dibattito al cinemino, Coop per la spesa con i bollini ed infine lambrusco e bocciofila al centro anziani. Banda per il funerale. Una vita per celebrare, per consolidare, per tramandare. Per obbedire e perpetuare. Una vita per rompersi i coglioni, magari a vent’anni, del programma stabilito dall’alto o dalla Storia. Insomma, giovinastri cresciuti all’ombra della falce e del martello, che come pecorelle smarrite finirono per imboccare una “cattiva strada”. Escursioni paramilitari e diffusione di ciclostilati (la fanzine Fiamma Nera) presso le feste dell’Unità, prima di dare alle stampe l’albo Abbiamo pazientato 40 anni. Ora basta!. Scandalo, sommo scandalo! un moloch industriale di chitarre pesantissime e titoli quali Addis Abeba, Milizia, Retorika, Leopoli, Attacco Dal Cielo. Giunsero apprezzamenti da spiriti liberi, destra e sinistra rigettarono con fastidio un disco che omaggiava, tra gli altri, Public Enemy, Louis-Ferdinand Céline, Ezra Pound, Lucio Battisti, Francesca Mambro, Franco Freda, Gianfranco Faina. Brividi. Attitudine a rompere la gabbia del finto ribellismo giovanilista, predisposizione all’oltraggio nei confronti del pensiero unico, prendendo le parti del “Male assoluto”. De André e Pasolini (no, non quelli del santino ad uso e consumo citazionista, tanto per darsi un tono) ne sarebbero stati orgogliosi, il sistema del divertimentificio di regime invece s’inalberò. “Provocazione? Un’altra, per giunta con grafica e contenuti di gusto fascista? Giammai”. Trovarono infatti casa presso l’Attack Punk di Bologna, già trampolino di lancio degli opposti speculari CCCP – Fedeli alla Linea.

Similmente alla compagine di Ferretti e Zamboni, i Disciplinatha non cercarono di far proseliti per giusta causa, non proposero un messaggio da condividere, bensì esasperarono esteticamente l’immaginario ideologico per farne strumento di liberazione. Fin dove si poteva osare? L’anarca ubbidiente è una contraddizione in termini. Liberazione dalla Libertà, divenuta nuova retorica imbalsamata. Ideologici compartimenti stagni che stavano per sfaldarsi, tuttavia ostentare simbologie littorie in contesti antagonisti, non risultò essere la strada più comoda. S’aggiungano, oltre ai campionamenti dei discorsi di Mussolini, maschere a gas, divise da Balilla, la statua della libertà che cala la maschera di morte, ripresa dalla propaganda della Repubblica Sociale Italiana e sbattuta in faccia al pubblico rock. Concerti annullati, dischi irreperibili, terra bruciata attorno. Con “12 geopolitico Crisi di valori (1991), impreziosito dal monito di Giovanni Paolo II mandato in loop, la creatura scandalosa mutò registro. Un mondo nuovo, del 1994, è la svolta. Uscito per I dischi del mulo, quindi sotto l’ala protettiva dei benvoluti C.S.I., il disco rappresenta il capolavoro del gruppo emiliano. Suoni più tecnologici e produzione impeccabile, la cover Up patriots to arms di Battiato, sostituzione dell’ingombrante armamentario littorio con una più sottile provocazione concettuale, già prefigurante il nuovo ordine mondiale e l’asservimento alla tecnocrazia globalizzante. In copertina un’immagine stucchevole, tratta senza autorizzazione dalla propaganda dei Testimoni di Geova; sicché di nuovo censura, seppur stavolta beffarda, che costrinse la casa discografica a rivedere la grafica dopo la prima tiratura.

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A testimonianza del cortocircuito che aprì le porte del “sistema” e dei passaggi video sulle tv musicali, la rivisitazione metallizzata del tradizionale canto comunista – e anti democristiano –  Vi ricordate quel 18 aprile, colpo di genio situazionista e invasione di campo, impreziosito da un frammento allusivo (“Achtung!”, probabilmente tratto da Brown Book dei Death in June). Ancora una volta mossa spiazzante. Così come l’inevitabile epilogo, il mesto addio alle scene titolato Primigenia (1996). I Disciplinatha erano diventati una band normale, come tutte le altre; quindi chiudere la ragione sociale non fu altro che atto di coerenza. Tornarono alla grande nel 2012, con il box totalitario Tesori della Patria, rafforzato da nuove sferzate anticonformiste: il logo di Emergency sull’elmetto SS, quello della pace sul burqa, la mela Apple sulla lavagna, da imparare a memoria: “la pace uccide anche te”; poi cori alpini dal fronte del Piave, una scheggia di terremoto, imbustata con la dicitura: “1989 Fine del muro di Berlino, 2012 Finale dell’Emilia”. Nel frattempo il mondo nuovo s’è fatto vecchio, sostituito da una splendida simulazione collettiva. Sempre nuove dittature, sempre applausi inebetiti da là sotto. Nihil novi sub sole. Ci facciamo un selfie con Dario Parisini? È un tipo scomodo.

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Donato Novellini

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